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Cassazione Penale Sent. Sez. 4 n. 25837 | 12 Giugno 2019

ID 8562 | | Visite: 1956 | Cassazione Sicurezza lavoroPermalink: https://www.certifico.com/id/8562

Sentenze cassazione penale

Cassazione Penale Sez. 4 del 12 giugno 2019, n. 25837

Caduta del lavoratore all'interno di una vasca non protetta

Penale Sent. Sez. 4 Num. 25837 Anno 2019
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: DAWAN DANIELA
Data Udienza: 13/03/2019

 

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

1. La Corte di appello di Brescia - che ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado in punto di pena - ha confermato l'affermazione di colpevolezza di A.B. di San Pietro, riconosciuto responsabile, in qualità di presidente del consiglio di amministrazione della società A.B. Trattamenti Termici S.r.L., nonché di delegato per l'igiene e la sicurezza sul lavoro, del reato di lesioni colpose gravi in danno del dipendente E.S.G., commesso con violazione delle norme in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro (in Brescia, il 07/03/2009).
2. Il fatto, per come ricostruito dal Tribunale, si verificava presso il reparto "nigel- titano" dello stabilimento di Brescia della suindicata società - che realizza impiantistica industriale -nella quale si eseguono, a mezzo forni di "pre-riscaldo" e di vasche di raffreddamento, trattamenti termici di materiali metallici. Il lavoratore E.S.G., nell'eseguire operazioni di movimentazione, per il tramite di carroponte, di un manufatto prelevato dal forno e destinato alla vasca di raffreddamento, indietreggiando cadeva all'interno di un'altra vasca, priva di copertura, profonda circa due metri e mezzo, procurandosi in tal modo la frattura del malleolo tibiale sinistro, con malattia durata 147 giorni. Dalle dichiarazioni rese dallo stesso infortunato e dal collega P.B.I. emergeva che la vasca in questione, realizzata da poco tempo, era stata inizialmente coperta con una lamiera di metallo che era stata, tuttavia, rimossa qualche giorno prima dell'infortunio perché danneggiata dalla caduta dall'alto di un pezzo in lavorazione. A protezione della vasca erano stati allora collocati dei paletti, uniti tra loro da catenelle, alti circa mezzo metro da terra, già caduti peraltro al momento dell'incidente ovvero, secondo il P.B.I., un semplice nastro bianco e rosso, all'altezza di circa un metro da terra.
In particolare, il profilo di colpa specifica ascritto all'odierno ricorrente è di non aver provveduto a difendere in modo idoneo le aperture esistenti nel suolo dei posti di lavoro e di passaggio contro il rischio di caduta di persone al loro interno.
3. Avverso la prefata sentenza, l'imputato, a mezzo del difensore interpone ricorso fondandolo su tre motivi. Con il primo, deduce manifesta illogicità della motivazione sulla prova della sussistenza del nesso causale: la Corte di appello ha riconosciuto l'imprudenza della condotta del lavoratore e tuttavia ha dichiarato l'inidoneità delle misure predisposte in assenza di un vaglio rigoroso. Con il secondo motivo, eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio e al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. In particolare, si censura che la sentenza impugnata abbia proceduto a contrario perché, invece di individuare prima la pena base, ha anteposto la verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento delle attenuanti di cui all'art. 62-bis cod. pen, con conseguente argomentazione contraddittoria. Evidenziando, pertanto, in primo luogo la gravità delle lesioni e del danno subito dalla persona offesa e, solo in secondo luogo il comportamento imprudente del lavoratore - cui pure viene riconosciuta efficienza causale alla verificazione dell'evento - si trascura come proprio questo comportamento sia funzionale alla determinazione della pena nel minimo edittale. Se si afferma, come pure fa la sentenza di appello, che la condotta imprudente del lavoratore ha contribuito alla verificazione dell'Infortunio deve risultare ridimensionata, almeno in parte, la gravità dell'omissione del datore di lavoro. Se è vero, in generale, che la gravità del danno cagionato é uno dei parametri che devono orientare la discrezionalità del giudice nella determinazione della pena (art. 133, comma 1, n. 2 cod. pen.), nel caso delle lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la gravità della lesione è già parte integrante dell'elemento materiale del reato. Ed allora, proprio perché la gravità della lesione incide già sull'aumento del quadro edittale, la stessa non potrà poi essere anche utilizzata come dato fattuale ostativo al riconoscimento delle attenuanti generiche.
Quanto ai precedenti penali dell'imputato, si rileva che gli stessi sono stati ritenuti rilevanti dalla Corte di appello sotto quattro profili: per il mancato riconoscimento delle generiche, per non aver disposto la pena pecuniaria prevista in via alternativa dall'art. 590 cod. pen., per la mancata sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria ai sensi dell'art. 53 L. 689/81, per la mancata sospensione condizionale della pena, così integrando una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. Manca, peraltro, un'analisi dettagliata, oltre che sulla natura, sulla consistenza dei precedenti penali dell'imputato al quale in un solo caso veniva contestato un delitto, trattandosi di contravvenzioni negli altri casi. La motivazione è poi contraddittoria laddove - rispetto alla Convenzione stipulata il 20/10/2008 (in epoca precedente l'infortunio per cui è causa) tra la società dell'imputato e l'Associazione Italiana Formatori sicurezza sul Lavoro, acquisita in primo grado - si limita a certificarne la sostanziale inutilità ai fini di prevenzione dell'infortunio occorso nel caso di specie, escludendo quindi che tale dato possa avere alcuna incidenza in tema di concedibilità della sospensione condizionale. La provata stipula di detto accordo - in epoca successiva a tutti i precedenti penali a carico del ricorrente - è anzi indicativa di una maggior sensibilizzazione riguardo la tematica della sicurezza dei lavoratori, anche perché comportante l'investimento di risorse nella partecipazione ad un progetto sperimentale di prevenzione infortuni. Dissonante si appalesa, infine, la sentenza laddove esclude la sostituzione con la pena pecuniaria «in quanto sanzione che, alla luce delle precedenti condanne, si è dimostrata inidonea a fungere da valido deterrente». La mancata sospensione condizionale costituisce il tema della terza doglianza, censurandosi con essa l'omesso giudizio prognostico. Peraltro, si evidenzia un profilo di contraddittorietà laddove la sentenza afferma che il A.B. di San Pietro non ha mai usufruito del beneficio della sospensione condizionale della pena proprio in considerazione della scarsa gravità dei resati contestati che hanno sempre  comportato la condanna alla sola pena pecuniaria. Risulta, infine, del tutto illogico il richiamo alla citata Convenzione in relazione al giudizio prognostico di non recidività.
4. Osserva il Collegio che sussistono i presupposti per rilevare, ai sensi dell'alt. 129, comma 1, cod. proc. pen., l'intervenuta causa estintiva del reato per cui si procede, essendo spirato il relativo termine di prescrizione massimo.
Deve rilevarsi che il ricorso in esame non presenta profili di inammissibilità, per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basato su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l'intervenuta prescrizione.
Sussistono, pertanto, i presupposti, discendenti dalla intervenuta instaurazione di un valido rapporto processuale di impugnazione, per rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen., maturate, come nel caso di specie, successivamente rispetto all'adozione della sentenza impugnata.
E poi appena il caso di sottolineare che risulta superfluo qualsiasi approfondimento al riguardo, proprio in considerazione della maturata prescrizione: invero, a prescindere dalla fondatezza o meno degli assunti del ricorrente, è ben noto che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, qualora già risulti una causa di estinzione del reato, non rileva la sussistenza di eventuali nullità, pur se di ordine generale, in quanto l'inevitabile rinvio al giudice di merito è incompatibile con il principio dell'immediata applicabilità della causa estintiva (cfr. Sez. U., n. 1021 del 28.11.2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220511) e non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in presenza, come nel caso di specie, di una causa di estinzione del reato, quale la prescrizione (v. Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv.244275).
Si osserva, infine, che non ricorrono le condizioni per una pronuncia assolutoria di merito, ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., in considerazione delle congrue e non illogiche valutazioni rese dalla Corte di appello nella sentenza impugnata: non emergendo, dunque, all'evidenza circostanze tali da imporre, quale mera "constatazione" cioè presa d'atto, la necessità di assoluzione (Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv.244274), discende di necessità la pronunzia in dispositivo.
5. Si impone, pertanto, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per essere il reato contestato estinto per prescrizione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.
Così deciso il 13 marzo 2019

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