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Cassazione Penale Sez. 5 del 05 Agosto 2025 n. 28613

Cassazione Penale Sez. 5 del 05 Agosto 2025 n. 28613

CP Sez. 5 n. 28613/2025 - Videosorveglianza nascosta sul posto di lavoro: ammessa in presenza di fondati sospetti di furto

ID 24436 | 17.08.2025 / In allegato

Cassazione Penale Sez. 5 del 05 Agosto 2025 n. 28613 - Furto continuato commesso dal dipendente: lecita l’installazione di telecamere nascoste se rivolte a controllare un lavoratore nei confronti del quale ci siano validi sospetti di comportamenti illeciti.
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Cassazione Penale Sez. 5 del 05 Agosto 2025 n. 28613
Composta da
Dott. CATENA Rossella - Presidente
Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere
Dott. OCCHIPINTI Andreina - Consigliere
Dott. BELMONTE Maria Teresa - Relatore
Dott. CAVALLONE Luciano - Consigliere
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SENTENZA

Fatto

1. È impugnata la sentenza della Corte di appello di Lecce - sez. distaccata di Taranto, che, in accoglimento dell'appello del Pubblico ministero e della parte civile agli effetti civili, ha riformato l'assoluzione, per insussistenza del fatto, di A.A. per il delitto di furto continuato aggravato dalla destrezza, dalla relazione di prestazione d'opera e dall'aver cagionato un danno di rilevante gravità, e l'ha condannata alla pena di giustizia, oltre alla condanna generica al risarcimento del danno con liquidazione di una provvisionale di Euro 5.000 e alle pene accessorie.

1.1. Alla ricorrente è contestato di aver reiteratamente sottratto, con mosse repentine, banconote dal registratore di cassa della farmacia presso cui lavorava, in occasione dell'apertura del cassetto per le operazioni di pagamento dei clienti o di cambio di moneta, per il complessivo importo di Euro 115.422,46, nonché di avere sottratto prodotti farmaceutici per il valore complessivo di 7.000 euro, condotta protrattasi nell'arco di circa tre anni.

2. Ricorre per cassazione l'imputata, per il tramite del difensore di fiducia, avvocato Roberto Tartaro, che svolge nove motivi, di seguito enunciati nei limiti richiesti per la motivazione ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Violazione degli artt. 576 e 593 cod. proc. pen. per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto ammissibile l'appello del Pubblico ministero, graficamente reiterativo dei motivi articolati dalla parte civile, censura ignorata dal la Corte di appello nel provvedimento impugnato.

2.2. Erronea applicazione degli artt. 191 e 189 cod. proc. pen. e correlati vizi della motivazione, contraddittoria e illogica quanto alla ritenuta utilizzabilità delle immagini captate tramite l'impianto di video-sorveglianza situato all'interno della farmacia. Si sostiene trattarsi di vere e proprie intercettazioni ambientali che avrebbero dovuto essere autorizzate dall'A.G. in quanto le riprese sono state effettuate all'interno della farmacia con installazione delle telecamere da parte del titolare, senza darne avviso ai dipendenti, e dopo avere concordato con i Carabinieri la procedura esecutiva. In particolare, le telecamere erano poste "nella parte posteriore del locale farmacia ove venivano ripresi i registratori di cassa ed il locale posteriore interno adibito a spogliatoio personale dei dipendenti". Trattasi, nell'ottica difensiva, di locali rientranti nella nozione di domicilio, nella declinazione proveniente dalla esegesi giurisprudenziale.

2.3. Violazione di legge e correlati vizi di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 625 n. 2 cod. pen., del danno patrimoniale di rilevante gravità ex art. 61 n. 7 cod. pen., e dell'abuso di relazione di prestazione d'opera ex art. 61 n. 11 cod. pen.

2.4. Con il quarto motivo, è dedotta la prescrizione del reato, considerato il tempus commissi delieti dell'unico episodio addebitabile alla ricorrente, risalente al marzo 2017, e la sospensione conseguente al rinvio disposto su istanza difensiva dal 22/12/2022 al 17/03/2023, pari a giorni 62 (dovendo escludersi a tali fini l'ulteriore rinvio d'Ufficio disposto alla udienza del 24/04/2020), con conseguente prescrizione maturata a novembre 2024, prima della pronuncia, in data 17/12/2024, della sentenza di appello.

2.5. Con il quinto e il sesto motivo sono denunciati vizi della motivazione sotto il profilo del travisamento dei fatti quanto alla ritenuta attendibilità dei testi ed all'interpretazione delle immagini estrapolate dall'impianto di videosorveglianza.

2.6.Con il settimo motivo è denunciata la contraddittorietà della motivazione per mancata individuazione del tempus commissi delicti, che non tiene conto dell'assenza per malattia della A.A., nonché l'errata valutazione della sentenza emessa nel giudizio civile per il licenziamento disciplinare della A.A., senza confrontarsi con le valutazioni espresse sul punto dal giudice di primo grado. Si deduce anche la mancanza di prova dell'entità del danno, ritenuto di rilevante entità, senza adeguata perizia.

2.7. L'ottavo motivo denuncia difetto di motivazione quanto all'esame delle dichiarazioni rese dalla ricorrente in merito al monitoraggio esercitato quotidianamente dal titolare della farmacia attraverso i terminali presenti nei locali della farmacia, alla chiusura di cassa che veniva effettuata dal medesimo titolare, dichiarazioni peraltro riscontrate dalle altre dipendenti della farmacia, colleghe della ricorrente.

2.8. Il nono motivo censura la sentenza impugnata nella parte dedicata al trattamento sanzionatorio. Ci si duole dell'immotivato diniego delle circostanze attenuanti generiche, stante l'incensuratezza dell'imputata e il corretto comportamento post factum, non essendo mai incorsa in ricadute delittuose.

3. Ha depositato memorie l'avvocato Leonardo Lanucara, nell'interesse della parte civile B.B., e ha concluso per la inammissibilità o il rigetto del ricorso, con condanna alla rifusione delle spese del giudizio, come da nota spese depositata.

4. Ha depositato memoria di replica alle conclusioni del P.G. il difensore dell'imputata, che insiste nei motivi di ricorso, altresì, eccependo la inammissibilità dell'istanza di trattazione orale formulata dalla parte civile, nel giudizio di legittimità instaurato con ricorso dell'imputato.

Diritto

Il ricorso, nel complesso, è infondato; per molti aspetti, inammissibilmente declinato.

1. In premessa, va ricordato - a fronte della obiezione difensiva veicolata con la memoria integrativa - che, ai sensi dell'art. 611 co. 1 -bis del codice di rito, il procuratore generale e i difensori delle parti possono chiedere - con istanza irrevocabile - la discussione in pubblica udienza. La richiesta può, quindi, provenire da qualunque parte processuale, mentre il precedente giurisprudenziale indicato nella memoria difensiva (Sez. Un. n. 41461/2002), risulta del tutto inconferente con il tema dedotto

2. Il primo motivo è manifestamente infondato, alla luce del radicato orientamento di questa Corte, dal quale non v'è motivo di discostarsi, che considera ammissibile l'appello del Pubblico ministero che trascriva nel proprio atto d'appello, testualmente e per esteso, le censure proposte dalle parti civili nella richiesta allo stesso presentata ai sensi dell'art. 572 cod. proc. pen., risultando così rispettato il requisito di specificità dei motivi (Sez. 4, n. 14014 del 04/03/2015, Rv. 263016; Sez. 5, n. 41782 del 26/05/2016, Rv. 267864; Sez. 5, n. 38700 del 03/05/2019, n.m.; Sez. 4, n. 26886 del 20/02/2019, n.m.; Sez. 5, n. 25846 del 26/03/2019, n.m.; Sez. 5, n. 32650 dell'11/05/2018, n.m.).

2.1. Nel caso di specie, la ricorrente deduce che il Pubblico ministero avrebbe letteralmente copiato l'appello delle parti civili; ciò non muta i termini della questione, posto che quello che rileva, ai fini della specificità del gravame, è che contenga una critica ragionata e motivata della sentenza impugnata, non rilevando la fonte dello scritto (cfr., sul punto, anche Sez. 4, n. 27824 del 28/04/2009, Rv. 244687, secondo cui è ammissibile il ricorso per cassazione del P.M. che ripeta argomentazioni e deduzioni rinvenibili nel ricorso delle parti private, poiché anche in tal modo il ricorrente, nella piena autonomia che gli compete, assume la paternità di coincidenti e sovrapponibili profili di doglianza; nello stesso senso, Sez. 3 n. 15205 del 15/11/2019 (dep. 2020) Rv. 278915; Sez. 5, n. 7456 del 21/01/2011, n.m.).

3. Il secondo motivo è infondato.

3.1. In premessa deve darsi atto che la sentenza impugnata ha specificamente scrutinato il tema - prospettato dall'appellante - della configurabilità, nel caso di specie, di un luogo di privata dimora (con riferimento al locale guardaroba della farmacia): con ampia argomentazione supportata da estesi riferimenti alla giurisprudenza di legittimità e costituzionale, la Corte di appello ha, in primo luogo, evidenziato, in punto di fatto, che il locale guardaroba della farmacia era, nel caso di specie, un locale condiviso, in quanto adibito ad ulteriori attività a opera di tutti i dipendenti e con i clienti e non poteva essere fruito da ciascun dipendente (in relazione al titolare e agli altri colleghi) con la pienezza corrispondente a quella del domicilio.
A tale osservazione in fatto è seguita un'ampia disamina della giurisprudenza, la quale ha precisato, nella sua più autorevole composizione, che rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono, non occasionalmente, atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale, dalla quale si trae il principio che "affinché possa ritenersi la sussistenza di un luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora, sono indefettibilmente necessari i seguenti tre elementi caratterizzanti: a) l'utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, senza il consenso del titolare (Sez. Un. n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, Rv. 270076; da ultimo, Sez. 5, n. 14878 del 20/04/2021, Deeb Hazem, Rv. 280817 - 01; Sez. 2, n. 46208 del 22/09/2023, Silvestris, Rv. 285436 - 01;).
Correttamente, la Corte di appello ha escluso che tali presupposti - peraltro neppure specificamente contestati - fossero sussistenti nel caso specifico, così che tale profilo di censura, finalizzato alla inutilizzabilità delle immagini di videosorveglianza, risulta del tutto infondato.

3.2. Quanto alla avvenuta installazione, da parte del datore di lavoro, di una telecamera di videosorveglianza nell'ambiente di lavoro, va detto che, in generale, la videosorveglianza dei dipendenti sul luogo di lavoro, utilizzata per il controllo a distanza dell'attività lavorativa, è vietata dalla legge. Lo Statuto dei Lavoratori sancisce il divieto assoluto di utilizzo di "impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori" (art. 4 L. 300/70). La medesima disposizione è richiamata dall'art. 114 del Codice della privacy (D.Lgs. 196/2003 - Codice in materia di protezione dei dati personali - poi sostituito dal Regolamento generale sulla protezione dei dati -approvato con Regolamento CE, Parlamento Europeo del 27/04/2016 n. 679 , in vigore dal 25 maggio 2018, anche noto come GD.P.R. - General Data Protection Reguiation) e lo stesso codice, all'art. 171, richiama l'art. 38 dello Statuto dei Lavoratori, ovvero le disposizioni penali applicabili alle violazioni dei divieti contenuti nello statuto (arresto fino a 1 anno e/o ammenda).
Le richiamate disposizioni di legge richiedono che l'installazione sia giustificata da specifiche esigenze (per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale") e che i lavoratori siano adeguatamente informati.
Nondimeno, nella giurisprudenza si questa Corte si ritiene lecito l'impiego di una telecamera nascosta, non segnalata da cartelli e installata senza il consenso dei sindacati o dell'Ispettorato, se rivolta a controllare uno specifico dipendente nei confronti del quale ci siano già dei validi sospetti di comportamenti illeciti. Si ritengono, quindi, utilizzabili, sia nel processo civile che in quello penale in cui è imputato il dipendente, le registrazioni video realizzate a sua insaputa sul luogo di lavoro per proteggere il patrimonio aziendale. Infatti, le norme dello Statuto dei lavoratori, che pure tutelano la riservatezza dei prestatori, non proibiscono i controlli difensivi sui beni dell'impresa, e, infatti, si è affermato che sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro, per esercitare un controllo in funzione della tutela del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, proprio sul rilievo che le norme dello Statuto dei lavoratori, poste a tutela della riservatezza dei lavoratori non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano l'esistenza di un divieto probatorio (Sez. 2, n. 2890 del 16/01/2015, Sez. 5, n. 34842 del 12/07/2011, Volpi, Rv. 250947; Sez. 5, n. 20722 del 18/03/2010, Baseggio, Rv. 247588-01).
La giurisprudenza è tendenzialmente orientata a ritenere che non ricorrono violazioni dell'art. 191 cod. proc. pen., quanto, piuttosto, uno statuto al quale recuperare la forza dimostrativa delle videoriprese, che è collegabile a quello della prova documentale ex art. 234 cod. proc. pen. Si ribadisce, dunque, che non è configurabile la violazione della disciplina di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970 - tuttora penalmente sanzionata in forza dell'art. 171 D.Lgs. n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018 - quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi (Sez. 3, n. 3255 del 14/12/2020, dep. 2021, Wang Yong Kg, Rv. 280542; nonché in senso analogo Sez. 1 n. 13649 del 09/09/2021 (dep. 2022), non massimata sul punto).
L'impiego della telecamera nascosta non può essere fatto, quindi, né con scopo preventivo né verso soggetti nei confronti dei quali non sussistono sospetti di colpevolezza, e neppure sarebbe possibile fare verifiche "random", a campione. Piuttosto, il tipico esempio scrutinato dalla giurisprudenza - che ha ritenuto ammissibile la installazione della telecamera "nascosta" - è quello finalizzato al controllo nei confronti del cassiere quando, in seguito alle verifiche di cassa, non tornino i conti sugli incassi registrati.
Che è esattamente il caso in scrutinio, da ciò discendendo che, in applicazione dei richiamati principi, anche in questo caso le riprese sono utilizzabili ai fini del quadro dimostrativo (Sez. 2, nr. 2890 del 16/1/2015, Boudhraa, Rv. 262288), in quanto l'installazione delle telecamere non si pone quale strumento volto al controllo a distanza dei dipendenti, tale da ledere il loro diritto alla riservatezza, bensì è finalizzato a ottenere la conferma dell'attività illecita che il datore di lavoro aveva il sospetto che si compisse nella sua farmacia e, quindi, per difendere il patrimonio della sua azienda, attività che non può considerarsi illecita (cfr. Sez. II, 22/01/2015, n. 2890, Rv. 262288 in un caso - analogo a quello in scrutinio - in cui il datore di lavoro aveva installato, tramite un investigatore privato, una telecamera nascosta nel suo negozio, dove risultavano degli ammanchi. Dalle videoriprese emergeva che una dipendente, in più occasioni, si impossessava di somme di denaro ricevute dai clienti. Quindi, provvedeva a far installare una telecamera nascosta puntata nella zona della cassa; conf. Sez. II, sent. n. 2890 del 22 gennaio 2015)
Il principio che viene in rilievo, quindi, è quello per cui il diritto alla riservatezza del dipendente cede di fronte all'esigenza di tutela contro i furti del datore di lavoro", incentrandosi il discrimen nella finalità per cui l'impianto viene installato sul luogo di lavoro, giacché, come si è detto, la legge vieta la videosorveglianza quando questa sia predisposta per effettuare un controllo a distanza del lavoratore, che è invece consentita quando la installazione delle telecamere è determinata da un controllo effettuato dal datore di lavoro in seguito al quale questi abbia rilevato la mancanza di profitti. In tal caso, infatti, la videosorveglianza non si pone come strumento volto al controllo a distanza dei dipendenti tale da ledere il loro diritto alla riservatezza, bensì per ottenere la conferma dell'attività illecita che si compie nella azienda e quindi per difenderne il patrimonio.
Il datore di lavoro, quindi, può ben installare nei locali della propria azienda telecamere per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, e questo perché le norme dello Statuto dei Lavoratori tutelano sì la riservatezza del dipendente, ma non fanno divieto al tempo stesso di effettuare i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale, e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio.

4. Non hanno pregio le doglianze riferite allo scrutinio delle circostanze aggravanti contestate.

4.1. nell'imputazione elevata dall'Accusa, vi è espresso riferimento, nella descrizione del fatto, alla destrezza che ha connotato la condotta illecita, dal che è del tutto evidente che la indicazione, nella rubrica dell'imputazione, dell'art. 625 n. 2 costituisce un mero refuso, e che, proprio in ragione di tale evidenza, l'imputata si è potuta adeguatamente difendere dalla contestazione della 'destrezza'.

4.2. Del tutto generiche si presentano le censure afferenti alle altre aggravanti: quanto al danno patrimoniale, la Corte di appello ha posto in rilievo l'entità della sottrazione accertata nel solo breve periodo di monitoraggio registrato (Euro 850); d'altro canto, già il solo dato patrimoniale complessivo relativo alla sottrazione dei prodotti cosmetici e farmaceutici (pari a circa 7.000 euro), indiscusso, integra la contestata aggravante di cui all'art. 625 n. 7 cod. pen. (Sez. 2 ri. 40314 del 03/05/2023, Rv. 285253)

4.3. La ricorrente era alle dipendenze della p.o., relazione che integra oggettivamente la circostanza aggravante di cui all'art. 625 n. 11 cod. pen. che ricorre tutte le volte che l'agente abbia agito abusando di rapporti che implicano una prestazione di lavoro in un cui si instauri un rapporto fiduciario tra le parti, ed essendo esplicitato chiaramente, nell'imputazione, l'elemento qualificante dell'abuso (quale dipendente della farmacia (Omissis).

5. È manifestamente infondata l'eccezione di prescrizione. Deve, invero, considerarsi che, nel caso specifico, l'intera condotta ricade sotto la disciplina della legge c.d. Cirielli (legge 5.12.2005 n. 251), cosicché la prescrizione, in presenza delle indicate tre circostanze aggravanti, fonda l'aggravamento sanzionatorio di cui all'art. 625 comma secondo, venendo, quindi, in rilievo un delitto per il quale è astrattamente prevista la pena della reclusione da tre a dieci anni. In conseguenza, il termine prescrizionale, ai sensi degli artt. 157 e 161 cod. pren., è di dieci anni, aumentato di 1/4 (anni dodici mesi sei), a cui devono aggiungersi le sospensioni di giorni 63 (per rinvio richiesto dalla difesa) e di giorni 62 (per l'emergenza sanitaria da 'Covid-19'), non ancora maturato in relazione a un fatto contestato come commesso dal gennaio 2015 al 29/09/2019, sicché, per nessuno degli episodi avvinti dalla continuazione, si è verificata la prescrizione, anche tenendo conto della disciplina dell'art. 159, comma 2, cod. pen. in vigore all'epoca dei fatti, che non consentiva lo spostamento del termine di decorrenza della prescrizione delle singole condotte al giorno in cui è cessata la continuazione.

6. I motivi dal quinto all'ottavo sono tutti inammissibili, perché manifestamente infondati. La Corte di appello si è confrontata specificamente con il profilo relativo all'attendibilità dei testimoni, non limitandosi ad affermare la convergenza del loro narrato, ma valutando le discrasie, che riguardano particolari di poco conto (come evincibile dalle dichiarazioni testimoniali, riportate diffusamente nella sentenza) e, comunque, tenendo conto che il dichiarato è confortato dalle immagini della videocamera interna, che confermano specificamente alcuni dei fatti narrati e conferiscono complessiva attendibilità alle propalazioni dei testimoni.

6.1. Viene, correttamente, evidenziato che la sistematica ripetizione giornaliera, negli anni, di episodi identici, rende comprensibilmente difficoltosa la focalizzazione di elementi distintivi, peraltro a significativa distanza di tempo.

6.2. Priva di specificità la deduzione incentrata sul contenuto dichiarativo delle colleghe della ricorrente, le testi Morleo e Cosma, che si sostiene non avrebbero visto l'imputata sottrarre denaro, giacché la ricorrente oblitera il dato, evidenziato nella sentenza impugnata, che esse abbiano, invece, affermato esattamente il contrario. La sentenza riporta tale dato, acquisito dopo la escussione, nel giudizio di secondo grado, delle colleghe della ricorrente, attività istruttoria resasi necessaria proprio per maggiormente specificare le circostanze poste a fondamento dell'accusa e ritenute insufficienti dal primo giudice. Viene anche evidenziata la circostanza constatata dalla collega C.C., che ha riferito di avere visto la A.A. riporre nel cassetto del registratore di cassa cento Euro e prelevarne in cambio banconote per 150 euro.

6.3. Risulta, dunque, totalmente infondato l'assunto di una superficiale ponderazione delle dichiarazioni dei testi escussi, che, invece, sono state fatto oggetto di un attento, puntuale, argomentato scrutinio da parte della Corte di appello.

6.4. Quanto alle immagini dell'impianto di video-sorveglianza, inammissibile è il tentativo di confutare il contenuto dei files video attribuendo finanche connotazioni di falso a quanto affermato nella sentenza, che riporta in realtà quanto osservato dalla persona offesa dopo che, decisasi finalmente ad indagare sugli ammanchi rilevati, ha proceduto all'installazione delle telecamere e all'esame delle immagini registrate.

6.5. Ancora, riguardo alla assenza dal lavoro per malattia della A.A., si profila come del tutto irrilevante, ai fini del giudizio sulla sua responsabilità, il periodo di assenza, nel momento in cui la Corte di appello ha rimesso al giudice civile la determinazione del quantum del risarcimento, mentre è chiaro come ai fini della sussistenza del reato continuato, detta circostanza risulti priva di rilievo.

6.6. Con riguardo alla sentenza sul giudizio disciplinare, la Corte di appello ha posto in rilievo il dato della conferma della legittimità del licenziamento per giusta causa da parte del giudice civile, in tal modo, rendendo chiare le ragioni del dissenso rispetto agli argomenti posti a fondamento della decisione assolutoria da parte del giudice di primo grado, che ha, illogicamente, valorizzato dati ritenuti in appello inconferenti.

6.7. Infine, riguardo alle dichiarazioni dell'imputata, il motivo propone valutazioni inerenti esclusivamente al merito dell'interpretazione della fonte dichiarativa, peraltro, reiterando deduzioni già confutate dalla sentenza impugnata, nella parte in cui riporta le contrarie indicazioni che emergono dal dichiarato dei testi e della parte civile che sconfessano le asserite consegne "a mano" nei confronti della farmacia 'Cavallo'.

6.8. Ma in tal modo, la difesa ricorrente si propone di far emergere come maggiormente preferibile la propria ricostruzione dei fatti e delle fonti di prova, laddove la selezione dei fatti e delle situazioni rilevanti è attività propria del giudice del merito e, quando l'interpretazione di essi è sorretta da una adeguata motivazione, continua a essere incensurabile nel giudizio di legittimità, anche dopo la riforma che ha novellato l'art. 606 comma primo lett. e) cod. proc. pen. (art. 8 L. n. 46 del 2006), tenuto anche conto del fatto che la valutazione della prova non può essere disancorata dal contesto in cui è inserita e che un simile compito non può spettare al giudice di legittimità, sulla base della lettura necessariamente parziale suggerita dal ricorso per cassazione (Sez. 6, 24 marzo 2006, n. 14054, Rv. 233454). A ciò deve aggiungersi che neppure l'emersione di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata può comportare l'annullamento della decisione per vizio di motivazione, allorché le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo 3 (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M e altri, Rv. 271227), posto che dà luogo a vizio della motivazione non qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma solo quello che sia idoneo a disarticolare uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l'impianto della decisione, quale risultante dall'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato (Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988; Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008, Ferdico; Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, P.M. in proc. Maniscalco ed altri, Rv. 212053).
A fronte, quindi, di un congruo corredo argomentativo, che non denuncia evidenti illogicità, le critiche del ricorrente all'uso del detto materiale probatorio, si risolvono in una censura alla ricostruzione di fatto che, invece, il giudice del merito ha operato rispettando i parametri della razionalità e completezza, mentre la Difesa si limita a formulare un giudizio di insufficienza del materiale probatorio uguale e contrario a quello, del tutto plausibile, reso dal giudice del merito: è quest'ultimo che deve rimanere fermo, non essendo consentito alla difesa prospettare le ricostruzioni alternative derivanti dal materiale probatorio.
In sintesi, "il ricorso non offre (così come impone la osservanza del principio di autosufficienza, v. Cass., Sez. I, 29 novembre 2007, n. 47499, Chialli, massima n. 238333; Sez. Feriale, 13 settembre 2007, n. 37368, Torino, massima n. 237302; Sez. VI, 19 dicembre 2006, n. 21858, Tagliente, massima n. 236689; Sez. I, 18 maggio 2006, n. 20344, Salaj, massima n. 234115; Sez. I, 2 maggio 2006, n. 16223, Scognamiglio, massima n. 233781; Sez. I, 20 aprile 2006, n. 20370, Simonetti, massima n. 233778) la compiuta rappresentazione e dimostrazione, di alcuna evidenza (pretermessa ovvero infedelmente rappresentata dal giudicante) di per sé dotata di univoca, oggettiva e immediata valenza esplicativa, tale, cioè, da disarticolare, a prescindere da ogni soggettiva valutazione, il costrutto argomentativo della decisione impugnata, per l'intrinseca incompatibilità degli enunciati (Cass., Sez. I, 14 luglio 2006, n. 25117, Stojanovic, massima n. 234167 e Cass., Sez. I, 15 giugno 2007, n. 24667, Musumeci, massima n. 237207)" (parte motiva della decisione della Sez. 1, Sentenza n. 54281 del 05/07/2017, Tallarico, Rv. 272492 - 01).
Le censure afferenti al giudizio di responsabilità, alla fine, censurano non la ragione, ma l'esito decisorio, risolvendosi i motivi in un dissenso 'decisionale, inidoneo, come tale, a segnalare in questa sede precarietà logiche della decisione impugnata o, peggio, vuoti di motivazione sui punti interessati.
La Corte di appello ha corredato la decisione con una solida struttura argomentativa, con la quale il ricorso non si confronta realmente, limitandosi a sostenere le proprie ragioni difensive in modo incoerente con i risultati dibattimentali, secondo uno schema deduttivo inammissibile, per le ragioni anzidette, e per la genericità estrinseca derivata dalla a-specificità (sul tema, cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 11951 del 29/1/2014, Lavorato, Rv. 259425; Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sannmarco, Rv. 255568; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; vedi, altresì, più di recente, Sez. 2, n. 42046 del 17/7/2019, Boutartour). A fronte di una motivazione conforme ai criteri fissati dall'art. 192, c.p.p., che impone una valutazione unitaria e non atomistica della prova, principio cardine del processo penale (cfr. Cass., sez. VI, 28.9.1992, n. 10642, rv. 192157), le doglianze difensive sul punto (peraltro di natura prevalentemente fattuale), non colgono nel segno, anche perché fondate su di una rappresentazione parcellizzata e parziale delle risultanze processuali, che evita il raffronto con il complessivo quadro istruttorio (cfr. Cass., sez. VI, 8.11.2012, n. 45249, rv. 254274). I motivi risultano, in conclusione, inammissibili risolvendosi in doglianze non consentite dalla legge in questa sede, in quanto relative, non già alla motivazione, perché mancante o contraddittoria o illogica, bensì alla valutazione probatoria.

9. Anche il nono motivo è inammissibile. La motivazione in punto di trattamento sanzionatorio e diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche è corretta, congrua e logica. La Corte di appello ha evidenziato la gravità del fatto - commesso dall'imputata tradendo la fiducia risposta dal datore di lavoro nell'ambito di un rapporto di lavoro trentennale, cagionando un danno economico di oggettiva rilevanza; ha sottolineato le ragioni per cui la personalità dell'imputata risulti allarmante, per l'impudenza dimostrata, a dispetto di uno stato di incensuratezza evidentemente ritenuto recessivo, infine, dando atto dell'assenza di elementi positivamente apprezzabili.

9.1. Invero, va ricordato che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269), e che si è ripetutamente affermato che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è sufficientemente motivato anche con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008,n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986).

10. Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle sostenute nel giudizio di legittimità dalla costituita parte civile, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro cinquemila, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, 04 giugno 2025
Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2025

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