Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo di ricorso, con cui si contesta la violazione del principio di cor relazione tra accusa e sentenza, è manifestamente infondato.
Sul punto occorre dar seguito al condivisibile orientamento di questa Corte, che ha escluso in simili fattispecie concrete la violazione del principio di correlazione di cui all'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619); ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza per ché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438, Golfarini, Rv. 269666).
L'esigenza sottesa a una tale lettura del principio di correlazione fra accusa e sentenza consiste nell'impedire, che attraverso rivendicazioni meramente formalistiche, l'imputato, abusando delle sue garanzie, pur posto in condizione di difendersi dall'ipotesi accusatoria, si trinceri dietro la non esatta corrispondenza letterale dell'espressione descrittiva del fatto.
Discorso diverso va svolto ove la descrizione dell'accadimento, visto in tutte le sue componenti, per il quale il soggetto viene condannato, venga a trovarsi in rapporto d'incompatibilità, eterogeneità o eccentricità, rispetto alla primigenia accusa, in quanto, pur avendo avuto l'imputato ovvio accesso a tutta la massa del materiale processuale utilizzabile, la sua difesa risulta essersi concentrata sul fatto siccome descritto nel capo d'imputazione, costituente specifica e precipua rappresentazione della vicenda di vita addebitata (Sez. 1, n. 28877 del 04/06/2013, Colletti, Rv. 256785).
Nel caso in esame, il Tribunale aveva condannato il F.F. per aver dotato il lavoratore di una manichetta deteriorata e non sostituita tempestivamente, fatto non espressamente contestato nel capo di imputazione.
Non è, tuttavia, neppure immaginabile un vulnus difensivo, in quanto la tematica in questione formava oggetto di trattazione nel corso dell'istruttoria dibattimentale, era poi ampiamente illustrata nella sentenza di primo grado e costituiva esplicitamente motivo di appello poi esaminato dalla Corte di appello.
L'affermazione di responsabilità penale, pertanto, non aveva trovato fondamento nell'accertamento di condotte illecite incompatibili, o anche solo eterogenee od eccentriche con quel che la difesa poteva ragionevolmente attendersi dal materiale processuale; l'imputato ha del resto potuto sul punto muovere le sue osservazioni critiche anche con il proposto ricorso, così escludendosi la sorpresa nella condanna intervenuta (Sez. 6, n. 422 del 19/11/2019, dep. 2020, Petittoni, Rv. 278093; Sez. 5, n. 19380 del 12/02/2018, Adinolfi, Rv. 273204).
3. Sono infondati il secondo, il terzo e il quarto motivo di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto tutti inerenti all'affermazione di responsabilità del F.F..
Occorre preliminarmente porre in risalto che, nel corso del giudizio, si è progressivamente realizzata una sorta di mutamento dell'oggetto del rimprovero rispetto all'originaria imputazione, anche se, come sopra esposto nel paragrafo precedente, ciò non determinava un difetto di correlazione tra accusa e sentenza.
Nel capo di imputazione si contesta che il datore di lavoro aveva consentito ai lavoratori l'utilizzo di manichette per il travaso dell'acido nitrico alla concentrazione del 65%, pericolose a causa della mancanza dei necessari requisiti di resistenza chimica nei confronti dell'aggressività dell'acido ed in assenza di misure idonee a garantire il buono stato di conservazione, e ciò si era concretamente manifestato nella bucatura della manichetta di travaso in plastica.
Alla luce di quanto emerso nel corso dell'istruttoria dibattimentale, il Tribunale ha individuato i seguenti profili di addebito al F.F.; a) l'omesso periodico controllo della consistenza delle manichette adottate, suscettibili per l'effetto del decorso del tempo di perdere la propria capacità di resistenza all'intenso effetto corrosivo dell'acido nitrico; b) l'utilizzazione di una tuta di seconda categoria destinata ad una protezione intermedia e non alla protezione dall'acido nitrico, per la quale sarebbe stata necessaria una tuta di terza categoria; c) il mancato rispetto della prescrizione dello Spisal, che prevedeva la sostituzione delle manichette dopo tre mesi e non dopo sei mesi;
d) l'esistenza di fori nelle manichette di travaso in plastica.
La Corte territoriale ha evidenziato la fondatezza del rilievo difensivo inerente all'idoneità delle manichette messe a disposizione del lavoratore, in quanto esso censurava dichiarazioni da ritenere inutilizzabili per violazione degli artt. 62 e 63 cod. proc. pen. (per il divieto di testimoniare dell'Isp. Zanin su dichiarazioni rese dal F.F. che doveva essere sentito con le garanzie di legge).
In ogni caso, la Corte di merito ha comunque riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro, osservando che, anche a voler accedere alla tesi difensiva di una qualità superiore delle manichette (polietilene della tipologia XLPE), in realtà esse erano inidonee alla classificazione 1 (valutata di livello massimo dall'Isp. Zanin), bensì dovevano essere considerate di resistenza chimica 2, cioè suscettibili di "qual che attacco limitare l'esposizione".
Inoltre, nella sentenza impugnata si è riaffermata la tesi della minore protezione determinata dalla tuta di seconda categoria adoperata dalla persona offesa, in luogo di quella di terza categoria, che avrebbe potuto essere resistente rispetto ad un travaso di acido con concentrazione pari al 65%, per cui non poteva riconoscersi un'idoneità assoluta delle manichette. In proposito, l'ispettore Zanin dava altresì atto della disponibilità nell'azienda di tale indumento di terza categoria, che già era in uso ai fini del travaso dell'acido fluoridico; conseguentemente, aveva ritenuto di prescrivere anche per attività di travaso dell'acido nitrico a concentrazione pari a 65% la tipologia di indumenti di terza categoria (testimonianza dell'Isp. Zanin e verbale di prescrizione formulata ai sensi dell'art. 43, comma terzo, d.lgs. n. 626 del 1994, ai sensi dell'art. 21, comma 1, d.lgs. n. 758 del 1994, documento prodotto in udienza dal pubblico ministero).
Secondo la Corte territoriale, stante l'utilizzazione di uno strumento di lavoro, che non garantiva in maniera assoluta la sicurezza del travaso, proprio in relazione all'elevatissima concentrazione dell'acido nitrico versato, il F.F. avrebbe dovuto fornire dei mezzi di protezione individuali adeguati.
Sul datore di lavoro, infatti, grava l'obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i dipendenti che debbano utilizzare macchinari sofisticati e di adottare tutti i più moderni strumenti offerti dalla tecnologia, al fine di garantire la sicurezza dei medesimi, sempre che il pericolo sia riconoscibile con l'ordinaria diligenza (Sez. 4, n. 41147 del 27/10/2021, Favaretto, Rv. 282065; Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018, dep. 2019, Motta Pelli s.r.l., Rv. 275114).
Nella fattispecie, pertanto, correttamente, la formazione e l'informazione del lavoratore sono state ritenute insufficienti ad esonerare il datore di lavoro dalla responsabilità.
La responsabilità del F.F., peraltro, è stata riconosciuta in ragione del mancato espletamento di un esame tecnico trimestrale (e non semestrale come verificatosi nel caso in esame) della resistenza del materiale di composizione delle manichette all'effetto corrosivo dell'acido nitrico, nonostante la specifica diversa prescrizione dello Spisal, al fine da poterle sostituire prima del verificarsi dei danni.
Contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, la Corte di appello ha ben rappresentato il nesso causale tra le suesposte condotte omissive del datore di lavoro e l'infortunio.
3.1. Relativamente alle censure riguardanti il comportamento asseritamente abnorme ed esorbitante dello J.P., la Corte territoriale, con motivazione lineare e coerente, ha ritenuto attendibile la spiegazione fornita dal lavoratore, che aveva dichiarato di essersi spaventato per l'accaduto e di non aver inizialmente seguito la precauzione di togliersi la tuta (salvo provvedervi subito dopo in bagno, come esposto anche dal B.A.).
L'assunto del giudice d'appello è corretto e conforme al principio più volte affermato dalla Corte di legittimità in materia di infortuni sul lavoro, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222); nello stesso senso, si è affermato che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603).
Pertanto, in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386).
A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di tutela approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Tali disposizioni, infatti, sono dirette a difendere il lavoratore anche da incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 263497).
Orbene, in base ai principi richiamati, come altresì evidenziato in maniera appropriata dalla Corte territoriale, è impossibile inquadrare nell'ambito delle condotte connotate da abnormità ed esorbitanza il comportamento del lavoratore infortunato, in quanto attuato in un ambito non avulso dal procedimento lavorativo a cui era stato addetto.
In ordine alla prevedibilità delle circostanze che hanno determinato l'evento lesivo del lavoratore, i giudici di merito, affermando la non eccentricità e la non imprevedibilità del comportamento del lavoratore, hanno evidenziato come la condotta dell'infortunato costituisse una comprensibile reazione all'accadimento improvviso.
4. Il quinto motivo di ricorso, con cui si deduce il difetto di motivazione in ordine al riconoscimento e alla quantificazione della provvisionale, è manifestamente infondato.
La Corte veneta ha ampiamente ed esaurientemente esposto le ragioni della non assimilabilità tra le posizioni dei due lavoratori, non essendo stato possibile verificare in quali zone e con quale ampiezza il B.A. fosse stato investito dall'acido, al fine di poter ascrivere la responsabilità esclusiva - o quantomeno parziale - dell'episodio lesivo allo J.P..
Occorre poi sottolineare che la condotta imprudente dello J.P. era stata tratteggiata in termini analoghi nelle due sentenze di merito, che entrambe evidenziavano la sua errata decisione dell'omessa dismissione della tuta, per cui non emergeva una differenza sostanziale di valutazione dell'incidenza causale del suo comportamento nella produzione dell'evento lesivo.
In ogni caso, persino se si intendesse rinvenire una diversità tra le due decisioni di merito, la diminuzione in sede di gravame della misura dell'apporto della parte tenuta a corrispondere la provvisionale non comporta una proporzionale riduzione della provvisionale medesima, trattandosi, infatti, di pronuncia discrezionale ed insindacabile, che non esige una circostanziata motivazione (Sez. 4, n. 34867 del 16/03/2017, Ruggiero, non massimata).
In ogni caso, non è possibile prospettare dinanzi a questa Corte questioni in ordine all'entità stabilita, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa, non suscettibile di passare in giudicato e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D.G., Rv. 263486; Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, P.C. e G., Rv. 261536).
Non sussistono, peraltro, ragioni giuridiche per negare rilievo probatorio alla certificazione Inail, attestante l'entità dell' infortunio .
5. Per le ragioni che precedono, il ricorso va rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 cod. proc. pen.) e al rimborso delle spese del presente giudizio di legittimità, da liquidare, alla luce della relativa complessità delle questioni trattate, nell'importo di euro 3.000 oltre accessori come per legge.