Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
Va premesso che, alla luce della normativa prevenzionistica vigente, sul datore di lavoro grava l'obbligo di valutare tutti i rischi connessi alle attività lavorative e attraverso tale adempimento pervenire alla individuazione delle misure cautelari necessarie e quindi alla loro adozione, non mancando di assicurarsi l'osservanza di tali misure da parte dei lavoratori.
Nella maggioranza dei casi, tuttavia, la complessità dei processi aziendali richiede la presenza di dirigenti e di preposti che in diverso modo coadiuvano il datore di lavoro. I primi attuano le direttive del datore di lavoro, organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa [art. 2, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 81 del 2008]; i secondi sovrintendono alla attività lavorativa e garantiscono l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa [art. 2, co. 1, lett. e), d.lgs. n. 81 del 2008].
Pertanto, già nel tessuto normativo è prevista la vigilanza del datore di lavoro attuata attraverso figure dell'organigramma aziendale che - perché investiti dei relativi poteri e doveri - risultano garanti della prevenzione a titolo originario. Il datore di lavoro può assolvere all'obbligo di vigilare sull'osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi (Sez. 4, n. 14915 del 19/02/2019, Arrigoni, Rv. 275577).
Prendendo atto di tali previsioni, questa Corte ha già affermato il principio secondo il quale, in tema di prevenzione infortuni sul lavoro, ai fini dell'individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse, occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio essendo, comunque, generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l'infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l'incidente derivante da scelte gestionali di fondo (Sez. 4, n. 22606 del 04/04/2017, Minguzzi, Rv. 269972).
Pertanto, anche in relazione all'obbligo di vigilanza, le modalità di assolvimento vanno rapportate al ruolo che viene in considerazione; il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli.
Ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo o di lesioni colpose aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Sez. 4, n. 26294 del 14/03/2018, Fassero Gamba, Rv. 272960, in un caso di omicidio colposo; in conformità, in un'ipotesi di lesioni colpose, Sez. 4, n. 18638 del 16/01/2004, Policarpo, Rv. 228344; principio risalente a Sez. 4, n. 17941 del 16/11/1989, Raho, Rv. 182857).
2. Ciò posto sui principi operanti in materia di preposti e di prassi lavorative, va osservato che la presente vicenda concerne l'infortunio sul lavoro occorso all'operaio T.C., il quale, mentre si trovava su un camion dell'impresa di appartenenza, subiva lesioni gravi cagionate per effetto dello scivolamento di alcuni pannelloni di metallo situati nel cassone del mezzo e che stava movimentando con la gru del veicolo, azionato da A.A., autista, altro dipendente, per essere scaricati a terra. Il lavoratore era schiacciato contro la sponda posteriore dell'automezzo dalle casseforme che, durante le operazioni di sollevamento effettuate dal collega A.A., scivolavano a causa dell'inidonea modalità di imbracatura mediante l'uso di fasce in tessuto e non tramite ganci o brache di sollevamento, come previsto dal manuale di istruzione ed uso della ditta Peri.
La Corte territoriale ha evidenziato che la persona offesa aveva riferito in dibattimento quanto segue: era stata resa edotta dal preposto B.M. o da C.E. delle modalità di spostamento dei pannelloni, i quali andavano movimentati con appositi ganci e poi con le "manine" (dette anche agganci o maniglie) attaccate al pannello, consistenti in pinze che si chiudevano agganciandosi al pannello; il giorno del fatto non aveva usato le manine, bensì delle fasce, adoperate anche in altri cantieri, per imbracare due pannelli del peso di kg. 200 ciascuno; per la movimentazione erano consigliati gli appositi ganci, anche se potevano essere usate le fasce; non era mai stato ammonito per l'uso delle fasce; quel giorno, aveva usato le fasce, che consentivano un'operazione più veloce, perché l'autista aveva fretta, dovendo portare del materiale in un altro cantiere.
La Corte di merito ha altresì chiarito che il manuale d'uso Peri non prevedeva l'uso di fasce di tessuto, ma esclusivamente di ganci di sollevamento, per i quali era prevista un'ispezione ad intervalli regolari, disposizione di particolare rigore introdotta per il peso notevole e per l'elevato ingombro delle casseforme; si trattava di ganci - con dichiarazione di conformità CE - collaudati per quelle specifiche casseforme, e contenenti l'indicazione del limite di carico.
Nella sentenza impugnata sono state evidenziate altresì l'impiego abituale delle fasce e la conoscenza approssimativa del T.C. e dell'A.A. del manuale Peri; il T.C. non aveva mai seguito un corso per l'uso delle casseforme. L'affermazione del T.C. di essere stato più volte redarguito per la scelta di usare le fasce trovava smentita nella verifica dei provvedimenti disciplinari adottati dalla ditta, tra i quali non era ricompresa la sanzione della sospensione dal lavoro, che egli avrebbe subito per l'inosservanza. Dal rilevante costo delle fasce di tessuto era desumibile che il loro impiego non poteva dipendere da una mera iniziativa dei dipendenti.
Il B.G. censura la mancata dimostrazione della sussistenza del nesso causale.
La Corte bresciana, tuttavia, ha illustrato l'approssimazione nell'espletamento di un'attività pericolosa e l'utilizzazione di fasce non consentite, spiegando che esse risultavano del tutto inidonee a sostenere il peso delle casseforme e a scongiurare eventi lesivi, come quello poi effettivamente verificatosi ai danni del T.C.. Ha chiarito le ragioni per le quali ha considerato inattendibile il T.C. nella parte in cui affermava di aver seguito corsi formativi e di aver autonomamente scelto le modalità concrete di compimento dell'azione lesiva.
Il giudice a quo, pertanto, ha risposto adeguatamente a tutte le censure in fatto formulate dal B.G. con l'atto di appello e ha affrontato in modo completo ed esauriente il tema della causalità. In ogni caso, la dedotta insussistenza del nesso eziologico non aveva formato oggetto di specifico motivo di appello.
La Corte territoriale ha riconosciuto mediante idoneo apparato argomentativo l'esistenza di una prassi contra legem osservata per le operazioni di sollevamento e di carico delle casseforme. Né l'esistenza di tale prassi (e della sua conoscibilità da parte dei vertici aziendali) poteva essere desunta dalle ammissioni della persona offesa e di un altro lavoratore di aver effettuato in precedenza la medesima manovra pericolosa.
Si è quindi dimostrato che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, non si era attenuto alle disposizioni di legge, tollerando una prassi particolarmente pericolosa per gli addetti e suggerita dalla società, non predisponendo le opportune precauzioni per scongiurarne l'utilizzo nonché non sorvegliando l'operato dei dipendenti.
2. Per le ragioni che precedono, il ricorso va rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 cod. proc. pen.).