Considerato in diritto
1. Il primo ricorso, proposto dall'avv. Mussa nell'interesse della P.C. e del E.F., è inammissibile, in quanto svolge, peraltro genericamente, censure di merito in ordine alla presunta rilevanza da attribuire, nel caso di specie, al mancato funzionamento delle barre di protezione ad "U".
I ricorrenti, al riguardo, si limitano ad invocare una perizia sul mancato funzionamento delle barre, ma sul punto la Corte territoriale ha fornito adeguata risposta, evidenziando che tale perizia non era necessaria in quanto è stata individuata la colpa (propria del datore di lavoro) di non aver previsto l'installazione di un dispositivo di sicurezza che avrebbe impedito l'evento, costituito dalle pedane laterali sensibili, imposto non solo dalla normativa UNI ma anche dall'allegato V del d.lgs. n. 81/2008, e di non aver valutato il relativo rischio.
Sotto questo profilo, la decisione impugnata è in linea con l'insegnamento della Suprema Corte secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori macchinari provvisti di blocco automatico atto a impedire di entrare in contatto con le parti in movimento è configurabile anche in relazione alle attrezzature acquistate prima dell'entrata in vigore della "Direttiva Macchine" del 1996, in base al combinato disposto di cui agli artt. 70, comma 2, d.lgs. n. 81/2008, e 6.3. dell'allegato V al predetto decreto legislativo, atteso che quest'ultima disposizione richiama testualmente quella enunciata dall'art. 72, d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, la quale costituisce applicazione del principio generale affermato dalla disposizione di cui all'art. 68 del medesimo testo normativo, che trova applicazione in tutti i casi in cui vengono usate macchine pericolose, e che non è stata superata dal d.P.R. 24 luglio 1996, n . 459 (cfr. Sez. 4, n. 36153 del 22/09/2021, Rv. 281886 - 01).
2. Il secondo ricorso, proposto dall'avv. Portulano nell'interesse del solo E.F., coglie invece nel segno, evidenziando la carenza motivazionale della sentenza impugnata limitatamente alla posizione del medesimo.
Infatti, al di là dell'esatta individuazione del rapporto intercorso fra la ditta del E.F. e quella della P.C., è indubbio che la posizione del primo di concedente/fornitore/finanziatore (del macchinario utilizzato dalla ditta della seconda) è comunque diversa da quella di datore di lavoro dell'infortunato.
In tale prospettiva, è pacifico che nel caso il E.F., per come documentato nel ricorso, aveva ottenuto una perizia stragiudiziale che attestava la regolarità del macchinario dal punto di vista della normativa prevenzionistica; sicché, almeno formalmente, egli aveva adempiuto agli obblighi previsti dall'art. 23 del d.lgs. n. 81/2008, avendo fornito un'attrezzatura di lavoro rispondente "alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro". Ciò ha trovato conferma nell'intervenuta sentenza di assoluzione del medesimo dalla relativa contravvenzione, pronunciata dal Tribunale di Torino il 24.5.2016 (divenuta irrevocabile il 22.11.2016).
Si tratta di aspetti che non sono stati affrontati dalla sentenza impugnata, con specifico riferimento alla posizione del E.F., atteso che in ordine alla sopra indicata pronuncia assolutoria la Corte di appello nulla dice. Di contro, sarebbe stato onere dei giudici del gravame di merito confrontarsi con tale decisione, al fine di valutare compiutamente i profili di responsabilità addebitati al E.F. non quale datore di lavoro, ma quale concedente/fornitore/locatore finanziario del macchinario. A tale riguardo, occorre rammentare che il E.F., non essendo datore di lavoro, non era tenuto a valutare il rischio specifico della macchina fustellatrice all'interno del ciclo di lavoro della ditta della P.C., ma il problema in disamina non è stato minimamente affrontato dalla Corte territoriale, che si è limitata ad equiparare la posizione del E.F. con quella della P.C., non cogliendo la diversità fra le due figure e la conseguente necessità di differenziarle sotto il profilo dei diversi obblighi di protezione a carattere prevenzionistico ad esse riconducibili.
3. A questo punto della trattazione, si deve osservare che il reato oggetto di imputazione è estinto per intervenuta prescrizione. Il fatto-reato risale, infatti, al 17.7.2013, ed il termine massimo di prescrizione di sette anni e sei mesi risulta decorso il 17.1.2021, in data successiva a quella di emissione della sentenza impugnata.
Da ciò discende, limitatamente al ricorso proposto dal E.F., i cui motivi di censura non sono inammissibili, ma anzi fondati, che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, agli effetti penali, perché il reato nei confronti del medesimo è estinto per prescrizione. Di contro, non emergono dagli atti elementi evidenti e palmari di irresponsabilità del E.F., ai fini dell'emissione di una pronuncia nel merito più favorevole ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen.
Non può essere, invece, dichiarata la prescrizione del reato nei confronti della P.C., stante la riscontrata inammissibilità del ricorso proposto nel suo interesse, cui consegue la mancata instaurazione di un valido rapporto processuale di impugnazione che preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen., tra cui la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D. L, Rv. 217266-0:1.).
4. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, agli effetti penali, nei confronti del solo E.F., per intervenuta prescrizione del reato. La stessa sentenza, agli effetti civili, va annullata, sempre nei confronti del solo E.F., con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, che provvederà anche alla regolamentazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Deve essere, invece, dichiarata l'inammissibilità del ricorso proposto dalla P.C., e non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. sent. n. 186/2000), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria, che si stima equo quantificare nella misura indicata in dispositivo. La ricorrente va, inoltre, condannata a rifondere le spese sostenute dalla parte civile Inail in questo giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori come per legge.