1. I ricorsi del Procuratore generale e della parti civili sono infondati e vanno, quindi, rigettati.
1.1. Si tratta di ricorsi i cui motivi sono ai limiti della inammissibilità, in quanto prospettano, in prevalenza, generiche censure di merito, essendo accomunati dal fatto che essi contestano a vario titolo la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte territoriale in relazione alla posizione di responsabilità del M.R. con riferimento all'incidente mortale in disamina.
Giova qui ribadire che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità «deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali» (in tal senso, ex plurimis, Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 1996, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite, le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Rv. 207945). La Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica deM'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge 20 febbraio 2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasta preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, n. 17905 del 23/03/2006, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Sez. 1, n. 1769 del 23/03/1995, Rv. 201177; Sez. 6, n. 22445 in data 8.05.2009, Rv. 244181).
1.2. Nel caso in disamina, con specifico riferimento alla posizione del M.R., la Corte territoriale ha congruamente e logicamente motivato in ordine alla esclusione di responsabilità del medesimo, accertando che costui aveva stilato idonea documentazione nella quale si dava atto dei rischi connessi ai lavori svolti in vasche e cisterne, ed inoltre aveva messo a disposizione dei dipendenti i necessari dispositivi di protezione utili allo svolgimento delle predette mansioni, garantendo la salubrità dei luoghi di lavoro.
In tal modo, il giudice di appello ha riscontrato l'assenza di specifiche omissioni colpose addebitabili al M.R., in linea con l'insegnamento di questa Corte secondo cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione risponde a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, solo degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio, dovuti ad imperizia, negligenza, inosservanza di leggi o discipline, che abbiano indotto il secondo ad omettere l'adozione di misure prevenzionali doverose (Sez. 4, n. 2814 del 21/12/2010 - dep. 27/01/2011, Di Mascio, Rv. 24962601). Nulla di tutto questo è stato riscontrato dalla Corte territoriale, e le opposte considerazioni dei ricorrenti, secondo cui le emergenze probatorie condurrebbero gli esiti del giudizio in senso diametralmente opposto, pretendono di ottenere dalla Corte di cassazione una rivalutazione dei dati probatori finalizzata ad una diversa ed alternativa ricostruzione dei fatti che non è consentita in sede di legittimità, a fronte di una motivazione che non può dirsi affetta da incoerenza o da manifesta illogicità.
1.3. Per il resto, le doglianze dei ricorrenti in ordine a presunti vizi motivazionali da cui sarebbe affetta la sentenza impugnata sono generiche ed inconsistenti, posto che neanche vengono indicati quali sarebbero i punti decisivi o rilevanti che non sarebbero stati compiutamente affrontati dal giudice di appello rispetto alle argomentazioni della sentenza di primo grado, al di là dell'asserita gestione "familiare" della ditta presso cui il M.R. prestava servizio, dato che di per sé solo appare neutro rispetto al più ampio tema della sussistenza di specifiche omissioni addebitabili al M.R..
1.4. Non sono poi fondate le censure articolate dalle parti civili in merito all'obbligo da parte del giudice di appello, prima di decidere in senso assolutorio, di procedere alla rinnovazione istruttoria delle prove dichiarative.
Al riguardo è stato ormai definitivamente affermato il principio secondo cui il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, P.G. in proc. Troise, Rv. 27243001). L'autorevole consesso ha chiarito che il principio della presunzione di non colpevolezza svolge un fondamentale ruolo di riequilibrio dell'ordine processuale, poiché, mentre il pubblico ministero è tenuto a provare i fatti costitutivi di un reato "al di là di ogni ragionevole dubbio", per l'imputato è sufficiente insinuare il dubbio circa l'esistenza di elementi negativi a discarico o impeditivi ai fini dell'accertamento della sua responsabilità. Ne discende che il sistema del processo penale - contrariamente a quanto affermato in ricorso - non presenta affatto un'architettura simmetrica, rilevando in tale prospettiva le implicazioni sottese alle regole di applicazione del principio posto dall'art. 27, secondo comma, Cost., con il corrispondente quadro normativo ordinario delineato negli artt. 530, comma 2, e 533, comma 1, cod. proc. pen. L'asimmetricità del sistema è conseguenza proprio delle regole di giudizio di cui ai predetti articoli, che impongono la condanna solo se la colpevolezza dell'imputato è provata «al di là di ogni ragionevole dubbio», mentre l'assoluzione può (e deve) essere pronunciata «anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile». La necessità di rinnovazione istruttoria delle prove dichiarative decisive - anche in caso di giudizio abbreviato - serve a vincere il ragionevole dubbio; dubbio rappresentato, appunto, da una precedente sentenza di assoluzione. L'assoluzione dopo una condanna, invece, non deve superare alcun dubbio, perché è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non certo l'assoluzione (giusta la regola di cui all'art. 530, comma 2, cod. proc. pen.).
2. Anche il ricorso del D.T. è infondato e meritevole di rigetto.
2.1. Quanto al primo motivo, è appena il caso di rilevare che la questione del concorso di colpa della vittima non è stata specificamente dedotta nell'atto di appello, pertanto la stessa non può essere esaminata in sede di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 27120 del 05/03/2015, Ottonello e altro).
2.2. Quanto al secondo motivo, si osserva che non è dato riscontrare alcuna contraddittorietà nel percorso argomentativo della sentenza impugnata in ordine alla valutazione della responsabilità del ricorrente rispetto a quella del M.R..
In primo luogo, non possono ritenersi equivalenti le posizioni di responsabilità del D.T. e del M.R. rispetto all'Infortunio mortale in esame, che ha riguardato due dipendenti del D.T., mentre il M.R. era responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) di una ditta diversa rispetto a quella del D.T..
E' infatti evidente che laddove la Corte di appello addebita al D.T. profili colposi che attengono, essenzialmente, alla riscontrata disorganizzazione aziendale della ditta in cui operavano i lavoratori deceduti, viene in rilievo la specifica posizione del D.T. quale datore di lavoro, in alcun modo equiparabile, sotto il profilo degli obblighi riconducibili a tale posizione di garanzia, con quella del M.R. quale RSPP di una ditta diversa.
Sotto un diverso, ma connesso, profilo, il riscontrato deficit di formazione dei lavoratori deceduti, cui si accenna anche nella sentenza di primo grado, non può che essere imputato al datore di lavoro - e non certo allo RSPP di un'altra azienda - avuto riguardo al ruolo centrale di tale figura nel sistema prevenzionistico, quale primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 cod. civ., in quanto garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21 ottobre 2014, Ottino, Rv. 26320001); e fra i numerosi obblighi a suo carico in tale ambito, è sempre sul datore di lavoro che grava il fondamentale obbligo di formazione ed informazione dei lavoratori (Sez. 4, n. 39765 del 19 maggio 2015, Vallani, Rv. 26517801; Sez. 4, n. 21242 del 12 febbraio 2014, Nogherot, Rv. 25921901).
La circostanza che il D.T. non fosse stato avvertito del lavoro da eseguire da parte dei suoi due dipendenti, è stata adeguatamente considerata nella sentenza impugnata, che in maniera congrua e razionale, oltre che corretta in diritto, ne ha inferito che ciò non esonerava il D.T. dagli obblighi a lui attribuiti ex lege, denotando anzi proprio tale circostanza una notevole disorganizzazione nella gestione dell'attività lavorativa, nonostante i doveri incombenti sul datore di lavoro di organizzare in maniera tecnicamente adeguata l'attività lavorativa dei dipendenti in maniera tale da assicurarne la sicurezza, anche in presenza di comportamenti colposi degli stessi; cui sono ricollegabili gli ulteriori doveri, sempre incombenti sul datore di lavoro, di prevenzione informativa e formativa del personale nonché di necessaria vigilanza e controllo sull'operato dei propri subordinati.
Il datore di lavoro non può invocare a propria scusa il principio di affidamento, assumendo che l’attività del lavoratore era imprevedibile, essendo ciò doppiamente erroneo, da un lato in quanto l'operatività del detto principio riguarda i fatti prevedibili e dall'altro atteso che esso comunque non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia, come certamente è quella del datore di lavoro (Sez. 4, n. 12115 del 03/06/1999, Grande A, Rv. 21499701).
L'addebito che viene mosso al D.T., sulla base di una valutazione del compendio probatorio e di un iter motivazionale che non è sindacabile in questa sede in quanto non affetto da incongruenza o manifesta illogicità, è essenzialmente quello di avere approntato un sistema di sicurezza aziendale che presentava delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (Sez. 4, n. 22813 del 21/04/2015, Palazzolo).
Del resto, proprio dalle accertate modalità con le quali si è verificato l'infortunio mortale in disamina, sono state desunte le carenze organizzative ed il deficit di formazione dei lavoratori, imputabili al datore di lavoro D.T., tenuto conto della riscontrata imprudenza con la quale il G.P. e l'B.A. hanno posto in essere l'attività rivelatasi fatale, calandosi nella cisterna senza munirsi degli adeguati dispositivi di protezione (imbracatura, mascherine e bombole d'ossigeno). In tale ottica va letta l'affermazione della Corte di appello in ordine al deficit organizzativo e di formazione addebitabile al D.T., essendo stato accertato che tali aspetti - fondamentali in materia di sicurezza - erano stati informalmente delegati proprio al G.P., rivelando così la palese ed indebita sottrazione del D.T. agli obblighi prevenzionistici su di lui specificamente incombenti ai sensi di legge.
In definitiva, la sentenza impugnata ha esaurientemente argomentato in ordine alle omissioni colpose imputabili al D.T., cui viene, fondamentalmente, rimproverato di avere indebitamente "lasciato a loro stessi" il G.P. e l'B.A. nello svolgimento di una attività lavorativa pericolosa, disinteressandosi dei profili di organizzazione aziendale e di necessaria formazione dei dipendenti sotto il profilo della sicurezza prevenzionistica.
2.3. Il terzo motivo è parimenti infondato, per le stesse ragioni che sono già state dianzi rappresentate.
L'inadeguatezza della formazione dei lavoratori da parte del D.T. è stata desunta, con motivazione logica e insindacabile in questa sede, proprio a ragione delle modalità di verificazione dell'incidente lavorativo, particolarmente indicativo di un deficit di formazione dei lavoratori. Il datore di lavoro, per quanto consta dalla sentenza impugnata, non ha adempiuto all'obbligo di legge su di lui direttamente incombente di somministrare ai suoi dipendenti adeguata informazione sui rischi generali e specifici per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività dell'impresa ed in relazione all'attività svolta, ai sensi dell'art. 36
d.lgs. n. 81/2008.
Le sentenze di merito hanno concordemente e correttamente evidenziato come il comportamento dei lavoratori non possa essere qualificabile come anomalo o imprevedibile, così da escludere la responsabilità del datore di lavoro, posto che il G.P. e l'B.A. hanno posto in essere un'operazione sicuramente rientrante nelle mansioni loro delegate. Non vi è, perciò, spazio - diversamente da quanto asserito dal ricorrente - per valorizzare la condotta imprudente degli operai deceduti quale causa sopravvenuta sufficiente di per sé sola a determinare il tragico evento, non potendosi affermare che la detta attività abbia innescato un rischio nuovo ed incommensurabile rispetto a quello ordinariamente derivante dalla medesima attività.
2.4. Il quarto motivo è manifestamente infondato, atteso che nel caso di specie non si pone un problema di prevedibilità in concreto dell'Incidente mortale da parte del datore di lavoro, venendo in rilievo profili di colpa specifici che già di per sé contengono un giudizio di prevedibilità, immanente alle regole cautelari violate, specificamente finalizzate a prevenire il rischio poi tragicamente concretizzatosi.
3. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna del D.T. e delle parti civili ricorrenti al pagamento delle spese processuali.