Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto il vizio di legittimità è solo apparente; in maniera generica e inconferente si contesta, infatti, il valore probatorio degli elementi utilizzati dalla Corte di appello per pervenire al convincimento di responsabilità e non si tiene conto degli argomenti e delle indicazioni probatorie puntuali acquisite e risultanti dai due gradi di merito.
I giudici di merito (fogli da 1 a 4 sentenza di primo grado e 14 ,15 sentenza impugnata) hanno accertato, attraverso dichiarazioni testimoniali, che il committente si ingeriva nell'attività svolta dai lavoratori della cooperativa appaltatrice del servizio di pulizie, dando disposizioni, direttive, intervenendo costantemente nella loro esecuzione, mettendo a disposizione le attrezzature, curando l'organizzazione del lavoro, proprio attraverso il capo reparto S.M. (il M.A., nella specie, lavorava da circa un anno presso la C.S.N, inizialmente era stato utilizzato per le pulizie poi era stato adibito addirittura al settore produttivo e guidava il carroponte fol 1 sentenza primo grado; fol. 12 sentenza secondo grado).
Riguardo quindi alle posizioni di garanzia quali datore di lavoro e di preposto, di fatto ricoperte dagli imputati, la decisione impugnata non presenta nessuno dei vizi dedotti. La Corte territoriale ha legittimamente ritenuto alla stregua della ricostruzione dei fatti, acquista dal complesso delle risultanze probatorie e solo genericamente contestata, che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, anche se formalmente ha appaltato a terzi le opere che hanno dato origine all'infortunio (Sez. 4, n. 50037 del 10/10/2017, Rv. 271327; Sez.4.n. 7954 del 10/10/2013 Rv. 259274). La Corte territoriale ha poi logicamente e coerentemente argomentato la responsabilità penale degli imputati, oltre ogni ragionevole dubbio, richiamando anche la disposizione di cui all'art. 26 comma 1 lett. b) D.Lgs. n.81/2008 e traendo ulteriori elementi di convincimento proprio dalla interferenza di più organizzazioni di impresa nel medesimo luogo di lavoro -come descritta nella contestazione del fatto contenuta nel capo di imputazione- in cui erano presenti, da un lat, la CSN s.r.l., titolare di attività di produzione realizzazione e verniciatura di lamiere, dall'altro, la cooperativa GSI cui era stato appaltato il servizio di pulizie e da cui formalmente dipendeva la persona offesa. Tale norma infatti trova il suo presupposto applicativo qualora il datore di lavoro abbia affidato lavori o servizi a soggetti terzi (imprese o lavoratori autonomi) "all'interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima, sempre che abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto». La ratio della norma è evidente: solo la disponibilità effettiva, nel senso di disponibilità giuridico/operativa, dei luoghi in cui si svolgono i lavori consente al datore di lavoro/committente di avere (o comunque di essere tenuto ad avere) compiuta conoscenza delle specifiche caratteristiche degli stessi e quindi dei rischi ad essi connessi. Da ciò consegue l'obbligo di cui alla lett. b) dell'art. 26 cit. di fornire ai soggetti terzi (operanti nei propri "spazi" di lavoro) «dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività». Informazioni che come la Corte territoriale afferma coerentemente non potevano che essere fornite, nel caso di specie, dal Semerari, preposto al controllo e all'organizzazione tanto dei lavoratori della cooperativa che dei lavoratori della C.S.N (fol 14) e dal B.N., responsabile dell'unità produttiva.
2.Ugualmente non deducibile nella sede di legittimità e perciò inammissibile il secondo motivo, in quanto il ricorrente svolge considerazioni di mero fatto allorché riconsidera le modalità dell'incidente ed in particolare i comportamenti posti in essere dalla persona offesa e dà per accertate situazioni di fatto smentite dalle puntuali ricostruzioni probatorie dibattimentali.
Va ricordato peraltro che la interruzione del nesso di condizionamento, a causa del comportamento imprudente del lavoratore, da solo sufficiente a determinare l’evento, secondo i principi giuridici enucleati dalla dottrina e dalla giurisprudenza (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv.261106, in motivazione; Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015, Rv.264365; Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Rv. 25409) richiede che la condotta del lavoratore si collochi in qualche guisa al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è «interruttivo» non perché «eccezionale» ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (Sez.4 n.15124 del 13.12.2016,Rv.269503).
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l'infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle criticità (Sez.4, n.22044 del 2.05.2012,n.m; Sez.4,n. 16888,del 7/02/2012,Rv.252373).
Le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l'area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli (Sez.4, n.4114 del 13/01/2011, n.m.; Sez.F, n. 32357 del 12/08/2010, Rv. 2479962).
La Corte territoriale ha fatto corretta e coerente applicazione dei principi giuridici sopra esposti, poiché ha ritenuto accertato da parte dei lavoratori addetti alla pulizia delle cisterne l'abituale e reiterato utilizzo, del tutto improprio, della frusta elettrica quando il contenuto della cisterna stessa era indurito e la frusta di saggina non era quindi sufficiente (tanto che dopo l'incidente la ditta sostituì la frusta elettrica con quella ad aria che non provocava scintille ); ha evidenziato che la condotta imprudente del M.A. non era stata pertanto né imprevedibile nè esorbitante e non poteva perciò fornire alcuna giustificazione né al datore di lavoro né al preposto che, titolari della posizioni di garanzia, avevano omesso di svolgere i compiti che tale posizione impone di adeguata informazione e formazione oltre che di verifica puntuale del rispetto delle norme di prevenzioni degli infortuni(foll4 ). Tanto più che il M.A. da oltre un anno era stato addetto all'unità di produzione e che l'incarico di coadiuvare nelle pulizie della cisterna gli venne dato in via di urgenza, non aveva mai svolto quel compito e la scopa elettrica, utilizzata normalmente per la miscela delle vernici, si trovava nelle immediate vicinanze del luogo ove avveniva la pulitura delle cisterne e comunque era nella disponibilità del lavoratore, che non era stato informato dei rischi e della pericolosità del suo utilizzo, laddove nella cisterna fosse stato versato un solvente facilmente infiammabile.
3. Manifestamente infondato e perciò inammissibile è il terzo motivo in quanto i giudici di appello hanno legittimamente valutato tutti gli elementi di cui all'art.133 cod. pen e ritenendo il fatto di una certa gravità in considerazione del grado della colpa hanno applicato la pena della reclusione, sia pure ridotta rispetto alla sentenza di primo grado e sostanzialmente corrispondente al minimo edittale.
4. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 a favore della Cassa delle Ammende.