Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
1.1. Va premesso che non ignora il Collegio il principio secondo il quale la motivazione della sentenza di riforma in grado di appello, tanto più ove si addivenga ad una condanna in secondo grado, deve essere particolarmente attenta e il giudice di appello, allorché prospetti ipotesi ricostruttive del fatto alternative a quelle ritenute dal primo giudice non può limitarsi a formulare una mera possibilità, come esercitazione astratta del ragionamento, ma deve riferirsi a concreti elementi processualmente acquisiti.
Tale principio viene espresso talora in termini meno assoluti, talaltra in termini più forti.
Si è specificato, infatti, che il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 3748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679).
Tale principio si è andato sviluppando dopo l'innovazione introdotta dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, che all'art. 5 ha modificato il canone dell'art. 533 c.p.p. ("al di là di ogni ragionevole dubbio": "dubbio" - non in senso psicologico ma come esito di un percorso argomentativo che rispetti la logica e le effettiva emergenze processuali; e "ragionevole" - cioè non qualsiasi ma qualificato).
Si è, dunque, detto che «il ribaltamento dello statuto decisorio in sede di gravame [...] deve fondarsi non su una semplice divergenza di apprezzamento tra giudici "orizzontalmente" proiettati verso un - reciprocamente autonomo - sindacato dello stesso materiale di prova, ma sul ben diverso versante di un supposto "errore" di giudizio che l'organo della impugnazione reputi di "addebitare" ai giudice di primo grado, alla luce delle circostanze dedotte dagli appellanti ed in funzione dello specifico tema di giudizio che è stato devoluto. Ad una plausibile ricostruzione del primo giudice, non può, infatti, sostituirsi sic et simpliciter, la altrettanto plausibile - ma diversa - ricostruzione operata in sede di impugnazione (ove così fosse, infatti, il giudizio di appello sarebbe null'altro che un mero doppione del giudizio di primo grado, per di più "a schema libero"), giacché, per ribaltare gli esiti del giudizio di primo grado, deve comunque essere posta in luce la censurabilità del primo giudizio; e ciò, sulla base di uno sviluppo argomentativo che ne metta in luce le carenze o le aporie che giustificano un diverso approdo sui singoli "contenuti" che hanno formato oggetto dei motivi di appello. La sentenza di appello, dunque, ove pervenga ad una riforma (specie se radicale [...]) di quella di primo grado, deve necessariamente misurarsi con le ragioni addotte a sostegno del decisum dal primo giudice, e porre criticamente in evidenza gli elementi, in ipotesi, sottovalutati o trascurati, e quelli che, al contrario, risultino inconferenti o, peggio, in contraddizione, con la ricostruzione di fatti e della responsabilità poste a base della sentenza appellata» (così Sez. 2, n. 50643 de 18/11/2014, Fu e altri, Rv. 261327).
In termini ancora più netti, si è affermato che il principio per il quale, nel caso di riforma da parte del giudice di appello di una decisione assolutoria emessa dal primo giudice, il secondo giudice ha l'obbligo di dimostrare specificamente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati, trova applicazione persino in caso di radicale rovesciamento di una valutazione essenziale nell'economia della motivazione (Sez. 5, n. 35762 del 05/05/2008, Aleksi e altri, Rv. 241169), specie in considerazione del maggior rigore motivazionale che progressivamente si è ritenuto esistere nel caso di riforma in peius, anche in conseguenza della sollecitazione derivante dalla nota decisione Dan vs. Moldavia del 5 luglio 2011 della Corte europea dei diritti dell'uomo (i cui effetti sull'ordinamento interno, anche sotto il profilo della eventuale necessità di rinnovazione dell'istruttoria in appello, sono stati evidenziati, tra le altre pronunzie, da Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, Sagone, Rv. 264542; Sez. 3, n. 38786 del 23/06/2015, U. e altro, Rv. 264793; Sez. 5, n. 25475 del 24/02/2015, Prestanicola ed altri, Rv. 263903).
Ed è opportuno precisare che la nozione di motivazione rafforzata riguarda tanto il ribaltamento di un'assoluzione quanto quello di una condanna. La regola, enunciata in termini generali - anche - da Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679, cit., non vale soltanto nel caso di riforma della sentenza assolutoria emessa in primo grado ma anche nell'ipotesi, opposta, di riforma in senso liberatorio di sentenza di condanna intervenuta in primo grado. Infatti:
«In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi la decisione di condanna pronunciata in primo grado, nella specie pervenendo a una sentenza di assoluzione, deve, sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del "decisum" impugnato, metterne in luce le carenze o le aporie, che ne giustificano l'integrale riforma» (Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu e altri, Rv. 261327, cit.);
«In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi la decisione di condanna del giudice di primo grado, nella specie pervenendo a una sentenza di assoluzione, non può limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della decisione impugnata, genericamente richiamata, delle notazioni critiche di dissenso, essendo, invece, necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dai primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni» (Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, dep. 2014, Ricotta, Rv. 258005);
«In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi la decisione di condanna di primo grado, nella specie pervenendo a una sentenza di assoluzione, non può limitarsi a prospettare notazioni critiche di dissenso aita pronuncia impugnata, dovendo piuttosto esaminare, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni assunte» (Sez. 6, n. 46742 del 08/10/2013, Hamdi Ridha, Rv. 257332; in termini, Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Ingrassia, Rv. 254617).
Del resto, come è stato persuasivamente precisato (Sez. 5, n. 21008 del 06/05/2014, Barzaghi, Rv. 260582, in motivazione al punto n. 1.1. del "considerato in diritto"), «È noto che, in tema di motivazione della sentenza di condanna pronunciata in appello in riforma di sentenza assolutoria di primo grado, il giudice ha l'obbligo di confutare in modo specifico e completo le argomentazioni della decisione di assoluzione (ASN 200922120-RV 243946). [...] Il principio ha carattere generale e, mutatis mutandis, non può non trovare applicazione anche nella ipotesi inversa: quella in cui, in secondo grado, intervenga assoluzione, in radicale riforma della sentenza di condanna pronunziata dal primo giudice. Invero, non è certo l'epilogo decisorio in malam partem ciò che obbliga il secondo giudicante a una motivazione "rafforzata", ma il fatto che appare necessario scardinare l'impianto argomentativo-dimostrativo di una decisione assunta da chi ha avuto contatto diretto con le fonti di prova; una decisione - per altro quella di primo grado - passibile, in astratto, di passare in giudicato» ).
1.2. Ciò posto, certamente corretto è il richiamo del P.G. alla centralità del principio del libero convincimento del giudice, purché accompagnato da adeguata motivazione (infatti, nella stesso senso di Sez. 4, n. 8527 del 13/02/2015, Sartori, Rv. 263435, secondo cui «In tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito, pur in assenza di una perizia d'ufficio, può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti e, ove tale valutazione sia effettuata in modo congruo, è inibito al giudice di legittimità procedere ad una differente valutazione, trattandosi di accertamento di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità», sentenza espressamente richiamata dal ricorrente, si rinvengono molte altre pronunzie, tra le quali, a mero titolo di esempio: Sez. 1, n. 46432 del 19/04/2017, Fierro e altri, Rv. 271924; Sez. 4, n. 15493 del 10/03/2016, P.C. in proc. Pietramala e altri, Rv. 266787; Sez. 4, n. 34747 del 17/05/2012, Parisi, Rv. 253512; Sez. 4, n. 46428 del 19/04/2012, Stringa, Rv. 254073; Sez. 1, n. 2268 del 18/12/1991, dep. 1992, De Negri, Rv. 191116; Sez. 4, n. 7591 del 20/04/1989, Peregotto, Rv. 181382).
1.3. Tanto premesso in linea generale, osserva, tuttavia, il Collegio che la Corte di appello di Torino ha fatto nel caso di specie buon governo del principio richiamato, dando correttamente atto di tutte le emergenze istruttorie e del ragionamento svolto dal Tribunale (pp. 2-9 della sentenza impugnata), per poi valorizzare la - ritenuta - significatività di un contributo conoscitivo e critico, essenzialmente documentale (emerso non solo e non tanto dalle dichiarazioni della p.o. ma soprattutto dai libretti di lavoro di A.G.DV. relativi agli anni '40, dalle indagini epidemiologiche del prof. C.B. sulla mortalità successiva alla esposizione ad amianto nei cantieri portuali friulani, richiamate dal consulente della difesa, dalle considerazioni scritte dello stesso c.t. prof. C.R., oltre che dal concreto esito del confronto svoltosi nel corso dell'istruttoria dibattimentale, sotto il profilo della mancata contestazione delle richiamate considerazioni da parte del consulente della parte pubblica), la cui portata e le sue implicazioni si è ritenuto essere state, per contro, trascurate o non sufficientemente valorizzate dalla sentenza di primo grado (pp. 12-19 della sentenza impugnata).
Il primo motivo di impugnazione, incentrato sulla denunziata violazione della regola della c.d. motivazione rafforzata, non merita, pertanto, accoglimento.
Il ragionamento è, comunque, strettamente collegato all'analisi dell'ulteriore motivo di impugnazione.
1.4. Quanto al secondo motivo di ricorso, si impongono le seguenti considerazioni.
1.4.1. L'esposizione ad amianto da parte della persona offesa nel trentennio 1958 - 1985 presso la società di cui era dirigente l'imputato è emersa, tra l'altro, da numerose e concordi testimonianze, circostanza su cui, in effetti, conviene la sentenza impugnata.
1.4.2. L'esposizione nel decennio degli anni '40 (1941-1951) nei cantieri navali è emersa, invece, oltre che dalle stringate dichiarazioni rese sul punto dalla p.o. al medico del lavoro il 6 novembre del 2012 su incarico del P.M., dal contenuto dei libretti di lavoro. In particolare, alle p. 16 della sentenza impugnata si legge che «Il libretto di lavoro del A.G.DV. attestava due periodi lavorativi preso cantieri navali: dal 23/6/1941 al 5/2/1947 presso i cantieri navali di Monfalcone in qualità di aiuto controllo motori e aerostati nelle reparto elettromeccanico e dalla 1/4/1948 al 11/9/1951 in qualità di impiegato presso i cantieri navali di Pola»; ma che non si trattasse - a Pota - di lavoro impiegatizio (come, invece, assume il P.G. a più riprese alla p. 4 della sua impugnazione) ovvero che la p.o. non abbia svolto per l'intero arco 1948-1951 mansioni impiegatizie lo si ricava dalla p. 13 della decisione impugnata, sfuggita al P.G., ove si legge che lo stesso A.G.DV. ha dichiarato che «Successivamente, negli anni 1947-1951, aveva lavorato presso i cantieri navali di Pola, come elettricista navale e per un periodo, presso l'officina elettrotecnica, come manutentore è come addetto ai recupero dei motori elettrici delle navi.
Era, quindi, stato spostato negli Uffici (Programmazione, prima, e poi Commerciale) come impiegato tecnico. In questo periodo non aveva lavorato con l'amianto, né i suoi colleghi lo maneggiavano; non era più salito a bordi di navi». Sicché deve ritenersi, in base alle informazioni che si traggono dalle sentenze di merito, che A.G.DV., oltre all'intero periodo 1941-1947 in Monfalcone, si sia occupato, almeno in parte del triennio a Pola, di motori delle navi dentro il cantiere navale.
Qui, in difetto di testimonianze (si tratta di fatti risalenti a settanta-ottanta anni fa), la Corte di appello ha fatto propri gli approdi degli studi epidemiologici del prof. C.B. e dei suoi collaboratori (studi citati dal consulente della difesa e non contrastati dai consulenti delle accuse, pubblica e privata, pp. 15-18 della sentenza impugnata) a proposito della presenza di amianto nei cantieri navali di Trieste e - proprio - di Monfalcone, della esposizione dei lavoratori al minerale e dello sviluppo del mesotelioma da amianto in soggetti che iniziarono l'attività lavorativa in età giovanile, peraltro con latenza assai lunghe, variabili cioè da sessantaquattro a settantacinque anni, con insorgenza, dunque, in persone assai avanti negli anni e con durata di esposizione variabile da undici a più di quaranta anni; non ha mancato la Corte di merito di osservare che, proprio come nei casi studiati da C.B., A.G.DV. iniziò a lavorare assai giovane, a diciotto anni, ebbe una durata di esposizione di circa undici anni, ebbe una latenza stimabile in sessantuno-settantuno anni ed insorgenza a novanta anni (v. pp. 16-17 della sentenza impugnata).
1.4.3. A ciò deve aggiungersi che, per quanto con un rapido passaggio (p. 19), la Corte di appello ha, almeno implicitamente, aderito alla tesi della irrilevanza delle esposizioni successive a quella che ha già innescato la patologia neoplastica, a prescindere da ulteriori esposizioni, tesi antitetica alla teoria scientifica, cui invece si richiama il P.G. (p. 3 dell'impugnazione), secondo cui esisterebbe un "effetto acceleratore" del processo carcinogenetico per effetto della protrazione dell'esposizione all'amianto, nel corso dell'attività lavorativa, in quanto sussisterebbe una relazione fra intensità e durata dell'esposizione e sviluppo della malattia.
1.4.4. Ebbene, osserva il Collegio che la esistenza dell'effetto acceleratore non può certo definirsi, come fa, assertivamente, il P.G., un "fatto notorio" (dovendosi intendere per "fatto notorio" o massima di esperienza un fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile: ad esempio, «Le massime di esperienza sono generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, fondate su ripetute esperienze ma autonome e sono tratte, con procedimento induttivo, dall'esperienza comune, conformemente ad orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spaziotemporale in cui matura la decisione, in quanto non si risolvono in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze o parametri riconosciuti e non controversi»: così Sez. 6, n. 1775 del 09/10/2012, dep. 2013, Ruoppolo, Rv. 254196; v. anche, ex plurimis, Sez. 2, n. 51818 del 06/12/2013, Brunetti, Rv. 28117).
Occorre, infatti, rammentare che in plurime e recenti pronunzie di legittimità si è affermato che dalla concreta analisi giurisprudenziale «si evince, peraltro, che il c.d. "effetto accelleratore" è concetto nato in ambito giudiziario, ma non può assolutamente considerarsi evenienza affermata da un sapere scientifico consolidato» (così al punto n. 10 del "considerato in diritto" di Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, P.G., P.C. in proc. Pesenti, Rv. 271718, la cui massima ufficiale recita: «In tema di prova scientifica del nesso causale, mentre ai fini dell'assoluzione dell'imputato è sufficiente il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l'evento, la condanna deve, invece, fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell'imputato sia provata "al di là di ogni ragionevole dubbio" (In applicazione del principio la Corte - richiamando espressamente i limiti del sindacato di legittimità rispetto al sapere scientifico - ha ritenuto immune da censure la sentenza di assoluzione degli amministratori delegati e dei presidenti del consiglio d'amministrazione di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, che aveva argomentato la mancanza di prova del nesso causale sulla duplice considerazione che gli imputati avevano assunto la carica a distanza di molti anni dalla cosiddetta "iniziazione" della malattia tumorale, e che costituiva ancora oggetto di dibattito nella comunità scientifica la sussistenza di un effetto acceleratore sul mesotelioma dell'esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell’ "iniziazione")»; si rinvia, comunque, alle ampie considerazioni svolte in motivazione, ai punti nn. 4, 5, 10, 11 e 12 del "considerato in diritto").
Fermo, dunque, che non spetta e non può spettare alla Corte di legittimità stabilire se una determinata tesi scientifica sia esatta o meno, non possedendo la S.C., nemmeno nella qualificata composizione a Sezioni unite, né qualificazione né proprie conoscenze privilegiate, ma invece soltanto valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, cioè se la spiegazione della sentenza sia razionale e logica (cfr. al riguardo le illuminanti considerazioni svolte ai paragrafi nn. 14, 15 e 16 del "considerato in diritto" di Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini e altri, Rv. 248943; in conformità, da ultimo, Sez. 4, n. 27521 del 07/03/2018, Rollo, non mass., nella cui parte motiva, al punto n. 4.4. del "considerato in diritto", si legge che «la Corte di legittimità non è per nulla detentrice dì proprie certezze in ordine all'affidabilità della scienza, sicché non può essere chiamata a decidere, neppure a Sezioni Unite, se una legge scientifica di cui si postula l'utilizzabilità nell'inferenza probatoria sia o meno fondata. Tale valutazione, giova ripeterlo, attiene al fatto. Al contrario, il controllo che la Corte Suprema è chiamata ad esercitare attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito esprime»), che vi sia un dibattito tuttora aperto nella comunità scientifica sulla sussistenza di un effetto acceleratore sul mesotelioma per effetto della esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella della "iniziazione" del processo carcinogenetico risulta, per quanto in questa sede può avere rilevanza, da plurime, recenti decisioni di legittimità, tra le quali si richiamano (oltre alla già citata Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, P.G., P.C. in proc. Pesenti, Rv. 271718) le seguenti:
Sez. 4, n. 25125 del 17/01/2018, P.G., P.C. in proc. Berlingieri e altri, non mass, (ai punti nn. 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 22 e 23 del "considerato in diritto");
Sez. 4, n. 1886 del 03/10/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Cappel, Rv. 271943, secondo cui «In tema di omicidio colposo in danno di lavoratori esposti ad amianto, la presenza, all'esito delle indagini preliminari, di questioni di ardua soluzione contrassegnate da una contrapposizione di orientamenti in seno alla comunità scientifica internazionale impone il vaglio dibattimentale, potendosi nel dibattimento disporre una perizia che consenta di fornire una adeguata risposta a tali complesse problematiche che richiedono l'acquisizione di dati o valutazioni di natura tecnica (Fattispecie di prova contraddittoria del nesso causale in ragione delle contrastanti conclusioni dei consulenti del pubblico ministero e della difesa in ordine alla sussistenza o meno del cosiddetto "effetto acceleratore" della malattia derivante dalla protrazione dell'esposizione ad amianto dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico)»;
Sez. 4, n. 18933 del 27/02/2014, P.C., P.G. in proc. Negroni e altri, secondo cui «In tema di rapporto di causalità, l'individuazione della cosiddetta legge scientifica di copertura sul collegamento tra la condotta e l'evento presuppone una documentata analisi della letteratura scientifica universale in materia con l'ausilio di esperti qualificate ed indipendenti (In applicazione del principio la Corte ha annullato la sentenza che aveva escluso la sussistenza dell'effetto acceleratore sul mesotelioma derivante dalla prolungata esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell'insorgenza, seppur latente, della malattia, osservando che il giudice di merito aveva elaborato un proprio originate punto di vista scientifico non sorretto da basi sufficientemente chiare e ponderose)».
1.5. Tutto ciò premesso, si impongono da parte del Collegio due considerazioni.
La prima: la sentenza impugnata affronta il rapporto tra possibili cause ed effetto letale prendendo posizione, per quanto assai stringatamente, nel senso della non sicura prova della sussistenza di un effetto acceleratore della malattia in ragione delle esposizioni all'amianto successive alla prima (p. 19), così collocandosi nel solco di altre, non trascurabili, prese di posizione, di cui si è detto.
La seconda: a proposito dell'eventuale esistenza del richiamato effetto acceleratore, la Corte territoriale sottolinea (p. 19), comunque, l'età assai avanzata della vittima (90 anni) al momento della manifestazione del male.
Entrambe le riferite prospettazioni sono, a ben vedere, in sé e nelle implicazioni reciproche, tali da giustificare sufficientemente il "ragionevole dubbio", criterio decisorio ex art. 533, comma 1, cod. proc. pen., che guida la decisione e che, in realtà, come condivisibilmente osservato dal P.G. di legittimità in udienza, non risulta puntualmente censurato dal Procuratore generale ricorrente, il quale si affida, come si è visto, o alla denunzia di violazioni di legge, in realtà non sussistenti, ovvero a censura di illogicità per contraddittorietà rispetto ad un supposto fatto notorio che, in realtà, tale non è.
2. Discende il rigetto del ricorso.
Nulla per le spese, stante la natura di parte pubblica del ricorrente.