Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa in data 26/6/2018 la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Bergamo, previa concessione all'imputato dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. in rapporto di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti, ha rideterminato la pena irrogata a S.E. in quella di mesi due di reclusione, confermando la pronuncia di responsabilità in ordine al reato di lesioni colpose, commesso con violazione delle norme in materia di infortuni sul lavoro.
Era contestato al ricorrente, in qualità di amministratore delegato della ditta "Control Techniques" , datore di lavoro del dipendente R.M., di avere procurato lesioni gravi al R.M. - consistite in ustioni di 2° e 3° grado alle mani, agli avambracci e al volto - per colpa generica e con specifica violazione degli artt. 77, comma 3, d.lgs. 81/08; 36, comma 2, 37 comma 1, 82 comma 1 d.lgs 81/08.
Secondo la ricostruzione dei fatti contenuta nelle sentenze conformi di condanna, il R.M., ingegnere, era stato incaricato di mettere in funzione un inverter (apparecchiatura che serve per trasformare la corrente continua prodotta dai moduli fotovoltaici in corrente alternata, idonea per alimentare la rete elettrica). La installazione e la messa in funzione di tale apparecchiatura avevano impegnato il dipendente per alcuni giorni. In data 16 maggio 2011, il tecnico, coadiuvato da un collega, non era riuscito nell'operazione, per problemi alla rete della media tensione del committente e neppure il giorno successivo lo stesso era riuscito ad avviare l'apparecchiatura per inconvenienti presentatisi sullo stesso inverter. La mattina del 18 maggio, R.M. si era quindi nuovamente recato in cantiere e aveva riscontrato ulteriori difficoltà che l'avevano indotto a chiedere aiuto dapprima a G.M., dipendente della Valtellina S.p.a., che già si trovava sul posto e, via telefono, a tale C., che era il suo tutor aziendale, grazie al quale era finalmente riuscito a individuare il problema nel circuito. A quel punto, R.M., utilizzando un tester multimetro digitale, aveva deciso di eseguire le opportune misurazioni per verificare che arrivasse la tensione necessaria per la fase di pre-carica: si trattava in particolare di effettuare due misurazioni, una sui due terminali di ingresso e una sui due di uscita collocati sul portafusibili, per controllare che i fusibili fossero integri. Eseguita la prima misurazione (che dava la lettura di 623 volt), il tecnico aveva puntato i terminali del tester sugli altri due morsetti. A quel punto, tuttavia, era partito un arco elettrico che aveva investito l'operatore cagionandogli le lesioni sopra indicate.
I profili di responsabilità individuati dai giudici di merito, riguardavano la mancata dotazione dei dispositivi di protezione previsti per l'esecuzione di lavoro sotto tensione e la mancata adeguata istruzione del dipendente in relazione all'attività che egli era stato chiamato a compiere.
2. Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso per Cassazione l'imputato, a mezzo del difensore che, in sintesi, giusta il disposto di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., ha dedotto quanto segue.
I) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la condotta addebitata al ricorrente ed il verificarsi dell'evento; contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell'elemento oggettivo del reato.
La difesa, dopo avere dettagliatamente riepilogato le diverse fasi della vicenda, sostiene che il ragionamento svolto dai Giudici di merito sia erroneo con riferimento al ritenuto collegamento eziologico tra l'omessa dotazione dei dispositivi di protezione e le lesioni sofferte dal R.M.. Richiamati i principi che regolano, nella elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale la vasta e complessa materia della causalità, afferma che la Corte di appello abbia fatto anacronistica applicazione in sentenza, della teoria del cd. aumento del rischio che offre il fianco ad interpretazioni suscettibili di sfociare in una responsabilità oggettiva e di posizione, che mal si concilia con il principio dell'affermazione di responsabilità ogni oltre ragionevole dubbio.
Gli aspetti evidenziati dalla difesa sarebbero desumibili da alcuni passaggi motivazionali della sentenza in cui si afferma: 1. Che è irrilevante che non sia stato possibile individuare specificamente la causa che ha innescato l'arco elettrico 2. Vi sarebbe stato nel converter, per stessa ammissione del consulente di parte, un problema di insufficiente serraggio dei morsetti, ben percepibile all'esterno.
Quindi, secondo la difesa, vi sarebbe una contraddizione nel ragionamento seguito dalla Corte di merito la quale, da un lato, afferma che l’incertezza sulla ricostruzione del nesso causale è da ritenersi irrilevante per attribuire l'illecito al S.E. e, per altro verso, sostiene che la mancata certezza sull'esistenza di un vizio occulto impedisca di ritenere interrotto il nesso causale ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p. Ciò, nonostante tale ricostruzione alternativa sia apparsa, come riconoscono i Giudici stessi, assolutamente probabile perché manifesta.
II) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, vizio di motivazione con riferimento alla ricorrenza dell'elemento soggettivo del reato.
Nel caso in esame, secondo la difesa, i Giudici hanno ritenuto integrato l'elemento soggettivo esclusivamente in virtù del precipuo verificarsi dell'evento tipico (l'arco elettrico) considerato dalla normativa europea di settore (EN 501101) che, all'art. 5.3.1.3., stabilisce che («se vi è rischio di contatto con parti nude attive, il personale che esegue le misure deve fare uso di dispositivi di protezione individuale e prendere precauzioni contro lo shock elettrico, e contro gli effetti di cortocircuiti ed archi». Dunque, la Corte d'Appello di Brescia sosterrebbe che, essendosi concretizzato il rischio espressamente tipizzato, ci si troverebbe al cospetto di una norma rigida che fonda un rimprovero di colpa specifica. Le ragioni che incrinano la conclusione dei Giudici di Brescia sarebbero molteplici. In particolare, la Corte d'Appello cade in un evidente equivoco preliminare laddove ritiene che la semplice presenza di un flusso di corrente elettrica in un impianto qualifichi qualsiasi attività svolta come lavoro "sotto tensione" (si veda a pagina 10, ove si afferma che «non v'è dubbio che essendo ormai l'inverter collegato alla rete, R.M. si trovasse a lavorare in ambiente sotto tensione»).
In realtà, la nota all'art. 3.4.4. EN 50110-1 chiarisce che, il lavoro sotto tensione viene eseguito dal lavoratore quando entra a contatto con le parti attive nude (ossia a contatto diretto con fili elettrici). Sulla base di tali elementi, l'attività che ring. R.M. era chiamato a svolgere, non poteva qualificarsi come lavoro "sotto tensione" atteso che si trattava di lavoro in bassa tensione che non prevedeva il contatto con parti nude attive dell'impianto. A confutazione di tale conclusione non potrebbe valere quanto espresso dai Giudici di Brescia i quali hanno definito l'attività dell'Ing. R.M. quale lavoro "sotto tensione" solo con deduzioni a posteriori ed in virtù del verificarsi di un evento di carattere eccezionale, tipizzato per lavori del tutto diversi da quelli che il S.E. aveva demandato ab origine.
Allora, se si considera l'attività di misurazione che l'Ing. R.M. doveva svolgere, la norma eventualmente rilevante nel caso di specie sarebbe l'art. 5.3.1.2. EN 50110-15 che, nell'ambito del rischio consentito, impone esclusivamente la dotazione di strumenti di misurazione adeguati e sicuri (pacificamente forniti all'Ing. R.M.). Tale precetto rientra, senza dubbio, nell'ambito delle norme cautelari "elastiche" e, pertanto, la necessità di operare il giudizio di prevedibilità ex ante resta immutata.
III) Vizio di motivazione in relazione al concetto di persona esperta o persona avvertita nell'ambito della esecuzione di lavori elettrici. L’inadeguatezza del complessivo impianto decisorio, secondo la difesa, mostrerebbe i propri effetti anche sulla ritenuta mancata formazione ed informazione dell'Ing. R.M. per svolgere il lavoro elettrico che gli era stato demandato. Si deve tenere presente che a norma dell'art. 82 del d.lgs. n. 81/2008 «è vietato eseguire lavori sotto tensione. Tali lavori sono tuttavia consentiti quando, per tensioni nominali non superiori a 1000 V in corrente alternata e 1500 V in corrente continua l'esecuzione di lavori su parti in tensione deve essere affidata a lavoratori riconosciuti dal datore di lavoro come idonei per tale attività secondo le indicazioni della pertinente normativa tecnica». La normativa di settore richiede che il lavoro de quo venga svolto da Persona Esperta (PES) o Persona Avvertita (PAV). Ebbene, allorquando ha dovuto valutare l'idoneità dell'Ing. R.M. a svolgere il lavoro elettrico di cui è processo, la Corte d'Appello di Brescia ha ricostruito in modo contraddittorio le argomentazioni a fondamento della propria decisione negativa, così palesando l'intrinseca debolezza del ragionamento seguito. Innanzitutto i Giudici, a pagina 13, muovono dal concetto di "formazione" che viene definito richiamando il punto 5.1.1. della norma CEI del 2005; poi viene indicata la differenza tra le due categorie (PES e PAV); infine la Corte giunge alla conclusione che ring. R.M. aveva una insufficiente preparazione sul piano della conoscenza di quello specifico apparecchio. Tale conclusione sarebbe, secondo la difesa, illogica e contraddittoria. Non solo perché si riconosce che il tipo di lavoro svolto poteva essere effettuato da un PES e da un PAV indifferentemente (l'Ingegnere sarebbe potuto rientrare in tale categoria), ma anche perché trascurano di considerare il vizio occulto presente nell'apparecchiatura che avrebbe, secondo la difesa determinato l'evento.
IV) Manifesta illogicità della motivazione in tema di diniego delle circostanze attenuanti generiche.